La polizia spara sulla folla l’opposizione: “Trenta morti”
A Dera’a distrutta una statua dell’ex leader Hafez el Assad Se si cercano risposte all’interrogativo del “dove va la Siria?”, alle prese con un’ondata di proteste senza precedenti, i tumulti di ieri indicano che l’ora della verità , per Damasco, s’avvicina a gran passo. La nuova audacia delle piazze contagia larga parte del Paese: dalla capitale ai sobborghi vacanzieri di Zabadani, dalla prospera città di Homs al capoluogo industriale e agricolo di Hama, fino ai villaggi tribali attorno a Dera’a nel Sud, e al centro costiero di Latakya a Ovest, migliaia di siriani raccolgono l’appello a manifestare, accodandosi alla quantità di piccole e grandi proteste che agitano la Siria dal 15 marzo. Nel «venerdì dei martiri e della dignità » proclamato in segno di solidarietà con i cittadini di Dera’a dopo l’assalto di mercoledì alla moschea; ad appena dodici ore dalle concessioni proferite dal palazzo presidenziale con promesse di riforme e di “non sparare più sui cittadini”, piombano notizie di nuovi scontri fra i dimostranti e i reparti della sicurezza, con altre vittime. Tre morti per la prima volta a Damasco, un adolescente a Latakya, nove (20 secondo alcune fonti) a Sanamien sull’altipiano dell’Houran. L’alba si annuncia tranquilla a Dera’a, l’epicentro rurale della ribellione, dopo il ritiro dei reparti anti-sommossa decretato dalle autorità . Smobilitati i checkpoint, frotte entrano liberamente anche da altri villaggi. All’ora della preghiera mattutina, dai minareti i muezzin chiamano a raccolta la popolazione per i funerali di cinque vittime di giovedì. L’intera mattinata Dera’a è lasciata a sé stessa, raccolta nel suo lutto, un fiume umano di decine di migliaia a sfilare dietro le bare, a scandire slogan di “Giustizia!” con la richiesta al governo di punire i responsabili delle uccisioni. Poi, lo schiocco delle pallottole esplose – dicono i testimoni – da uomini della sicurezza. Tornano i candelotti lacrimogeni a disperdere la folla, che scardina la statua di Hafez al Assad, padre dell’attuale presidente e per trent’anni leader del regime ba’athista siriano, negli anni del più cupo rigore. Si solleva anche Sanamin, a una decina di chilometri da Dera’a. Da lì partono resoconti di nuove vittime: 9 o 30, secondo fonti contrastanti. È allora che le proteste dilagano attraverso la Siria, all’uscita dalla preghiera del venerdì: varie forme di ribellioni, più o meno contenute, percorrono il Paese dalle coste mediterranee all’entroterra industriale. Un centinaio a Zabadani, nell’oasi verde che circonda Damasco, intona canti di “Libertà “, seguita da un migliaio a Duma e ad Al Tal, due sobborghi della capitale. A Homs esprimono fratellanza a Dera’a, ma chiedono anche l’allontanamento del governatore locale. Così pure sulle coste di Latakya, dove un adolescente perde la vita. Ma è Damasco il teatro di uno scontro frontale fra dimostranti sostenitori del presidente Assad. Il primo, grave affronto che insanguina la capitale. Accade quando nel quartiere residenziale di Mezze, all’imbocco della superstrada verso l’aeroporto, una congrega di appena un centinaio scandisce “Hurryia”, libertà . Una carovana di auto blocca la strada, in sostegno ad Assad. Da un finestrino spunta un’arma che, secondo i testimoni, fa fuoco su tre persone. Ban Ki-Moon, il segretario generale dell’Onu, alza il telefono e chiede al presidente Assad «massima cautela». L’amica Turchia rimanda a dire «che il tempo stringe, le riforme vanno completate presto». L’America ripete: «Basta con la repressione». Se la ribellione di Dera’a poteva essere considerata finora «una tragedia isolata sotto il profilo geografico», per citare un’analisi dell’International Crisis Group, da ieri l’eco della protesta risuona attraverso la Siria. Gli occhi ora sono fissi sul palazzo presidenziale. Solo da lì arriverà una chiara risposta alla domanda centrale: se la Siria sceglierà una svolta radicale, o affonderà nella repressione.
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