by Editore | 25 Marzo 2011 7:04
tokyo – Nel centro di accoglienza di Sendai, Yasu Haru, 10 anni, grandi occhi neri, confessa: «Abbiamo paura delle centrali nucleari. Dicono che potrebbero esplodere, sarebbe terribile. Cerco di pensare ad altro ma non ci riesco». Attorno a lui è il caos inevitabile di un centro allestito in poche ore in un’ex scuola elementare sfuggita chissà come al disastro. E alle prese con mille problemi organizzativi, mancanza di medicine, viveri, pannolini. I bambini si rincorrono tra le camerate di fortuna e le cucine da campo. Giocano, ridono ma dormono male. «Penso sempre a come tremava tutto, alla fuga, alla mamma che gridava – dice Kazuki Seto, 8 anni – ma qui adesso sono contento, siamo in tanti. Io non voglio più stare solo». Gli specialisti di Save the children, la prima organizzazione internazionale arrivata in Giappone dopo l’emergenza, hanno creato una rete di “spazi a misura di bambino” dentro ogni centro profughi. Se il governo si preoccupa di letti e pasti caldi, loro portano psicologi, giocattoli, palloncini, fogli e pastelli colorati. Il disegno, dicono gli esperti, è una terapia eccezionale per scacciare gli incubi, allentare le tensioni. «Mia figlia non scarabocchia più, e non usa più il colore rosa» racconta angosciata la mamma di una bambina di 9 anni. In ogni caso queste surreali sale giochi nel cuore del disastro servono a dare la possibilità ai genitori di occuparsi di questioni urgenti e fondamentali come recuperare beni perduti, riorganizzare economie familiari sconvolte. L’effetto a prima vista è quello di un asilo nido come tanti. Stare assieme, disegnare, giocare fa bene ai piccoli profughi di Sendai che superano meglio degli adulti le difficoltà concrete come le code per il cibo, l’impossibilità di lavarsi, perfino un riscaldamento mediocre e i continui blackout. I momenti di buio a volte sembrano quasi occasioni per divertirsi e ridere un po’. Ma gli incubi sono in agguato e arrivano puntualmente la notte. La giovane mamma Michiko Takahashi, appena 22 anni, è molto preoccupata per la sua bellissima Mion, poco più di un anno: «È sempre stata timida ma durante il terremoto è rimasta impietrita, bloccata. Non ha pianto ma è stata per ore a guardare nel vuoto. Adesso piange sempre e poi ha paura di tutti gli adulti, si nasconde. Vuole stare solo con gli altri bambini o con me». Altri genitori raccontano storie tutte uguali di risvegli improvvisi e di lacrime nella notte: «Mamma, è scoppiata la bomba?». Materiale per psicanalisti che non tutti si potranno permettere in futuro. E che non riguardano solamente i profughi della prima linea. Anche nella capitale che il governo si ostina a dichiarare «totalmente sicura», sono i bambini a tradire la tensione che gli adulti si sforzano di nascondere. Nel quartiere di Urayasu alla periferia Est di Tokyo, il terremoto non ha fatto i danni del nord. Se non fosse per le crepe che si vedono sull’asfalto o per le collinette, alte anche più di un metro, spuntate dal nulla. Qui la vita è tornata normale da un paio di giorni, e anche il grande asilo nido Hinode Hoikunen ha riaperto i battenti. Otsuka Kumiko, direttrice della struttura comunale che serve le famiglie di piccoli impiegati della zona, ha l’aria stanca. Vanta un organico invidiabile: ben trenta maestre specializzate per 175 bambini da 0 a 5 anni. E l’istruzione media dei genitori facilita di molto il lavoro. Eppure dopo la riapertura ha visto cambiamenti che la mettono in allarme. «I bambini sono cambiati – dice – Nessuno, per esempio, vuol tirare fuori le proprie cose dagli zainetti per metterle sui banchi come si faceva prima. Ti dicono: “E se poi dobbiamo scappare”?». Anche qui ci sono problemi logistici, magari non gravi come a Sendai. Manca l’acqua, bisogna usare rudimentali vasini chimici. Ma non è questo il cruccio della signora Kumiko: «Li vedo tutti più attenti. Troppo. Fanno discorsi da adulti, sentiti in tv, sul risparmio energetico o sulle radiazioni, o sulle scosse di terremoto, come se avessero perso di colpo la spensieratezza dei bimbi». Che fare? La direttrice pensa di incontrare i genitori per saperne di più, per elaborare un piano. Ma non è molto sicura: «Il momento è difficile. È inevitabile che i bambini siano i primi a soffrirne».
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