by Sergio Segio | 29 Marzo 2011 18:30
Oggi ci sono anche i carciofi. Non che quei due carrelli da spesa basteranno per tutti: alle dieci son finiti. Dopo, nel sacchetto già riempito di mezzo litro di latte, filone di pane, cornetti confezionati, risotto in busta, tiramisù e cioccolatini, finirà un mazzetto di prezzemolo o due tisane per digerire. I pomodori no: dall’Ortomercato ne hanno mandate cento casse ma se ne salvano una manciata dalla muffa. Nessuno, nella lunga coda che tocca la ex Centrale del latte, fuori dai cancelli del Pane quotidiano di viale Toscana, se ne lamenterà .
Va bene tutto, soprattutto se è in più. La panna cotta, il croissant all’albicocca, il cappotto. Già , perché in fila dalle 8 – per primi entreranno anziani e invalidi, ma tassativamente alle 9 e alle 11.01 i cancelli sono chiusi – ci si mette anche per un panno usato, un pantalone, un maglione. Il lunedì, giorno dispari, è giorno di maschietti, alle donne toccano quelli pari e le signore che stanno dietro al bancone non fanno sconti: darsi e dare una regola e quindi un senso, per chi affonda le mani nel mare magnum dei disperati, è essenziale. «Serviamo 2500 razioni al giorno, tra questa sede e viale Monza – spiega l’ingegner Ercole Pollini, il responsabile della baracca – il 30 per cento in più rispetto al 2008. Altro che polso della situazione: il fondo lo toccano le famiglie e anche le aziende in crisi, quelle poche che ci aiutano, che faticano a mandarci la roba».
I flussi migratori, in viale Toscana, sono quelli della 90 e della 91. A ogni fermata, una dozzina di persone in fila. Clochard e badanti con due carrozzine, il distinto signore in Barbour («è per una mia vicina di casa») e la lunga coda delle donne rom, i disagiati mentali e le pensionate coi denti alla nicotina. Il signor Luigi trascina fuori una stampella e i suoi 77 anni. «Ho fatto l’operaio Alfa e il falegname – racconta mentre scambia con una vicina di casa una bottigliaccia di marsala: la mensa continua con il baratto sui marciapiedi – un’ex moglie e quattro ex fidanzate. Ho la casa ma non ce la faccio con la pensione». Pavel, 35 anni, bulgaro di Sliven, ghigna furbo: «Non è vita per me. Sono passato solo perché devo volantinare alla Bocconi: mi danno 400 al mese, nel 2002 erano mille. Non è vita per me. Forse vado in Scozia, o torno in Danimarca». Romolo, romeno di Ploiesti, occhialini distinti sotto i capelli col gel, 38 anni e barba di tre giorni, stona con il contesto: «Sarei elettricista, ho studiato psicologia, avevo una compagna e ho due bimbi. Li vedo solo nei weekend da quando sono separato: con 50 euro a settimana di stipendio e 300 di subaffitto da un’altra famiglia ogni tanto il morale ti va giù, ma che devo fare?». Non chiedetelo ad Aldo, 56 anni, due ex mogli e tre figli tra Milano e il Brasile, dove emigrò con la famiglia calabra: «È dal 2006 che non trovo un lavoro fisso, a fine anno torno in Brasile dove una licenza da tassista costa meno che qui. Ma non mi lamento, meno male che ci sono posti del genere».
Trovi le stesse facce nelle stesse mense. Ventiquattr’ore scandite dalle fermate degli autobus, dagli orari dei cancelli, dalle frasi secche dei volontari col tesserino spillato sul petto. E anche da quelli senza tesserino: in via Canova, dai carmelitani scalzi, chiedono i documenti solo nei periodi di emergenza, sennò nemmeno quelli. «Lo facemmo solo coi cinesi – rammenta padre Giulio – quando da un giorno all’altro cominciarono a venire in ottanta. Ora sono spariti, come gli albanesi e molti maghrebini. Abbiamo gli ucraini, i moldavi, i salvadoregni. Una cinquantina di italiani su 300 pasti, anziani e malati, offriamo un pasto e un domicilio per chi ne ha bisogno per lavoro. E dovremo fare di nuovo filtro, se davvero arriveranno a centinaia dalle zone di guerra: non abbiamo strutture per fare di più».
Non come in corso Concordia dove la macchina degli aiuti attrae una galassia di 1600 bisognosi a pranzo e 1100 a cena al desco dell’Opera San Francesco. Il tesserino è per tutti, come la doccia e la barba quotidiana e un cambio biancheria ogni dieci giorni, e pure l’ambulatorio di via Antonello da Messina dove anche alle quattro del pomeriggio trovi gente allo sportello. Pastasciutta, petto di pollo, insalata, in coda c’è una torma. «E si mangia bene» sottolinea Francesco, 61 anni, reggino di Salina Jonica. Parola di cuoco: «Sempre fatto quello, a Torino e a Monaco, a Milano e a Oldenburg, a Rho e a Brema, anche nei cinque stelle. E ancora adesso, però due volte a settimana dopo l’operazione al cuore, spesso mi tocca fare il lavapiatti. Così, con un’ex moglie, due figli e due nipoti, da 20 mesi dormo fuori, sotto la Galleria quando i vigili non mi vengono a spostare. Non lo sa nessuno di loro, nemmeno mio fratello dirigente delle Ferrovia che sta a Pavia. Mi mancano tre anni per la pensione. Forse torno in Germania».
Fieri, tutti. Maurizio, 51 anni, triestino, ex poligrafico al Piccolo e poi mille altri lavori, interrompe la sua partita di scopa d’assi nel salone del centro dei Fratelli di San Francesco, via Saponaro, Gratosoglio: «Io parto in quarta, difendo me e gli altri, e perdo il lavoro. Con la moglie sono separato, niente figli. Qui ci dormo da novembre: è un’esperienza, la prendo come la leva, impari a convivere. Tra un po’ ripartirò, cercando di sopravvivere ai colloqui di lavoro o alle odissee per rifare la carta d’identità ». Vito, 56 anni, di Mazara del Vallo, torna dalla sigaretta e riprende a bisticciare di politica, sinistrorso Maurizio, berlusconiano lui: «Il lavoro, ero in cooperativa, non ce l’ho dal 2004, gli ultimi soldi li ho persi alle slot a settembre e da allora sono qui. È la prima volta. Mi dico che è momentaneo, di non finire vittima di me stesso e dello sconforto. Cosa farò quando uscirò? Non ho idea. O meglio, ne ho tante. Mancano i soldi».
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