Kosovo, Iraq, Libia

by Editore | 24 Marzo 2011 6:40

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La guerra giusta è come il rischio zero nel nucleare: più grande è la falla nel sistema, più spazio c’è per polemiche e avvertenze prima dell’uso. Ma l’orrore per la guerra non può tramutarsi in indifferenza verso massacri e impotenza della comunità  internazionale di fronte a gravi violazioni dei diritti umani. Il mondo è lontano dall’ideale della pace universale di Kant: occorre quindi l’accettazione (anch’essa morale) di guerre giustificabili, se non giuste. È uno dei criteri fondanti delle Nazioni Unite: i diritti dei popoli sono più importanti della sovranità  degli Stati. Le polemiche sull’intervento in Libia e il rinfacciarsi fra destra e sinistra il sostegno a questa guerra o la condanna di guerre precedenti (dal Kosovo all’Iraq) avrebbero meno senso se alcuni punti fossero condivisi. In primo luogo il fatto che pochi interventi militari internazionali abbiano avuto un sostegno e una legittimazione così ampi quanto l’operazione «Odissea» in Libia, decisa dopo una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, con il sostegno della Lega araba e di molti Paesi europei. Si può argomentare sul «gallismo» dei francesi, sugli eccessi di protagonismo elettorale di Sarkozy, sulle divisioni non sorprendenti dell’Europa, sul recalcitrare della Lega araba dopo i primi missili, sull’opportunità  o meno del comando Nato — necessario per il coordinamento delle operazioni, meno utile per le sensibilità  dei Paesi arabi — ma sono appunti che non stravolgono la sostanza giuridica della decisione di bombardare la Libia. Tra l’altro, si tratta di un intervento multilaterale: non più soltanto occidentale, non più a guida americana. La Francia ha capito la posta in gioco e ha scommesso, con un occhio ai propri interessi, sul futuro della regione. Che potrà  essere incerto, però sarà  probabilmente senza alcuni dei dittatori di oggi. Non è stato così per l’intervento in Iraq, deciso unilateralmente dagli Stati Uniti, con il falso pretesto delle armi di distruzione di massa in possesso di Saddam. Non è stato così nemmeno in Kosovo, poiché il bombardamento della Serbia di Milosevic fu deciso in ambito Nato, adottando la tesi di un intervento «difensivo» . Solo successivamente intervennero le Nazioni Unite, con una risoluzione che fra l’altro rispettava l’integrità  della Federazione jugoslava (così si chiamava ancora il Paese di Milosevic) e non prevedeva l’indipendenza del Kosovo. L’intervento in Afghanistan fu legittimato dalle Nazioni Unite che dopo l’attentato alle Torri Gemelle affermarono la necessità  di combattere con ogni mezzo il terrorismo. Valse per gli Usa il diritto all’autodifesa.
Nella caduta di Kabul fu determinante l’Alleanza del Nord, la parte del popolo afghano che si opponeva ai talebani e che era doveroso aiutare. Furono sostenute dal consenso della comunità  internazionale le operazioni in Somalia e a Timor Est. Purtroppo non si trovarono Paesi «volenterosi» per arrestare i genocidi in Ruanda e Cambogia. Agli argomenti giuridici, si possono muovere obiezioni sul piano morale. Milosevic e Saddam erano meno rispettabili di Gheddafi? E nei confronti di Milosevic e di Saddam l’Occidente non aveva intrattenuto quel genere di rapporti ambigui (affari, forniture di armi, rispettabilità  e riabilitazione politica) che oggi vengono ricordati a proposito del rais libico? Le vittime della pulizia etnica nella ex Jugoslavia o della dittatura di Saddam erano più innocenti dei cittadini di Bengasi? La risposta, per quanto insoddisfacente, non può che essere politica. Se motivazioni morali e legittimazione giuridica dovrebbero essere argomenti condivisi, è la politica che stabilisce una gerarchia che offre il fianco alla polemica. Ed è la politica che — sempre a posteriori — stabilisce in base ai risultati la «convenienza» di un intervento. Nel caso dell’Iraq, è arduo negare le conseguenze dei bombardamenti sulla popolazione civile, lo stillicidio di attentati seguito all’occupazione militare, l’instabilità , il prezzo pagato dall’America e dall’Occidente in termini d’immagine ed esposizione al terrorismo. Per fare la guerra a Saddam si è scoperto il fronte afghano, si è permesso che il terrorismo accentuasse la presenza nel Paese, si sono forniti argomenti al fondamentalismo islamico. Nel caso del Kosovo, le durissime operazioni della polizia serba avrebbero portato Milosevic al Tribunale dell’Aia per crimini di guerra. Si decise di appoggiare la secessione organizzata dai guerriglieri kosovari. Il distacco del Kosovo completò il processo di disgregazione della Jugoslavia. Chi scrive fu critico nei confronti di un intervento giuridicamente approssimativo, ma occorre riconoscere la preoccupazione morale di non veder ripetersi i massacri della Bosnia e l’obiettivo politico — non scritto in nessuna risoluzione, esattamente come oggi per Gheddafi — di sbarazzarsi di Milosevic, considerato un pericoloso e permanente fattore d’instabilità . Anche se poi fu la democratica rivoluzione dei serbi a cacciarlo. Nel caso della Libia, molte condizioni giuridiche, politiche e morali sembrano rispettate. Senza contare che in Libia, come in larga parte del mondo arabo, è in atto una rivoluzione per affermare libertà  e diritti.

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