Kabul: una tranquilla giornata di paura

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Qualche minuto di paura e poi, quando è chiaro che l’uomo è soltanto un mendicante, tutto torna come prima. Come se niente fosse successo. Nessun posto è sicuro in un paese che, dopo oltre 10 anni, stenta ad uscire dalla guerra e che dall’inizio del 2011 ha visto un aumento degli attacchi suicidi verso obiettivi civili mai registrato prima.

La vita scorre veloce a Kabul. Durante la settimana le strade polverose sono invase da un traffico impazzito e automobilisti che non rispettano le più basilari regole di sicurezza stradale. Nel quartiere generale delle ambasciate e delle Forze di Assistenza internazionali uomini della Polizia afghana, armati di kalashnikov, sorvegliano le auto che entrano ed escono. Un pezzo di città  sottratta alla stragrande maggioranza degli afghani, dove a dominare sono alti muri di cemento armato, auto blindate e fucili spianati sempre in massima allerta. Il presidente Karzai aveva promesso che avrebbe restituito i marciapiedi della città  ai suoi abitanti. E’ successo in minima parte. O meglio, è successo dove vivono gli afghani. Aveva anche chiesto di eliminare dalle auto i vetri scuri. Ma la sicurezza, per gli occidentali, vale più di ogni altra cosa e non tutti hanno rispettato l’ordine.

Gli inglesi la chiamano Kabul-bubble. La bolla di Kabul. Con gli anni, nella capitale afghana sono arrivati milioni di euro di finanziamenti, personale “più o meno” umanitario retribuito con stipendi da capogiro. La speranza degli afghani per una vita migliore è cresciuta, ma le aspettative, in molti casi, sono state tradite. Molti progetti si sono rivelati autentici “buchi nell’acqua” e le condizioni di sicurezza, con le relative stringenti regole che molte Ong hanno imposto al personale espatriato, non hanno permesso a molti di avere un contatto con quella che è la realtà  di un Paese da ricostruire.

Ma la sicurezza, a Kabul, non è una prerogativa solo per stranieri. Gli afghani, che ogni giorno affollano bazar e strade della capitale sono oramai “target” di attentatori suicidi che colpiscono dove possono. E lo sanno. Non hanno gli sms sul cellulare delle Ambasciate che segnalano ogni giorno il rischio di “attentati suicidi”, ma conoscono la loro città  e sanno come “tira il vento”. “Sono nato a Kabul e morirò a Kabul. Cosa posso fare”, dice Yamer sorridendo mentre sistema su un tavolo di legno, nel mercato di Mandayi, veli colorati e sciarpe, con una decina di agenti della Polizia afghana che camminano attorno. “Questa gente (gli attentatori, nda) non vuole che gli afghani abbiano una vita normale. Sanno che non abbiamo paura, che non ci nascondiamo più e quindi cercano di spaventarci con queste azioni”. Gli allarmi sono frequenti. “L’altro ieri – racconta – la Polizia ha iniziato ad urlare dalle auto. La gente si è spaventata ed è scappata via. Non ci sono stranieri in questa zona, solo afghani. Poi hanno preso un uomo e lo hanno caricato sulle auto. Non si capisce mai cosa succede veramente. Ma non ho altra scelta. Dove posso andare per stare sicuro. Non ho soldi neppure per mantenere la mia famiglia”, ripete per ben due volte prima di tornare a sorridere.

Amid, 13 anni, corre avanti e indietro sui marciapiedi di Shar e-Now street. E’ scalzo, la faccia sporca, una giacca azzurra piena di buchi e un paio di jeans strappati. In mano ha uno straccio sudicio con il quale pulisce i vetri delle auto incolonnate. Un uomo gli allunga 20 afghani dal finestrino e poi tira dritto per la sua strada. La sua famiglia si è trasferita in Pakistan, dove è nato, durante la guerra civile per poi tornare a Kabul nel 2005. Sognavano una vita migliore, ma non sempre i sogni coincidono con la realtà . A Gennaio, quando gli insorti hanno attaccato il Safi Landmark Hotel era lì. Ha scampato il pericolo con qualche graffio e tanta paura. “Per due giorni – dice – non mi sono mosso da casa e poi sono tornato nuovamente a lavorare. Perché la mia famiglia vive con i soldi che porto a casa”. Se una giornata va di lusso, per quelli come Amid, l’incasso giornaliero è di 2-3 dollari. Come lui, secondo i dati della Ong Aschiana, ci sono circa 60mila bambini a Kabul.

Ma la vita quotidiana per gli afghani, non si ferma mai. Il palazzo del re, oggi, è un enorme rudere diroccato alla periferia Sud-Ovest di Kabul. I bambini giocano con le biciclette, mentre i più fortunati hanno una mazza da cricket e improvvisano partite nel piazzale di fronte. Il filo spinato chiude l’accesso alla struttura, ma dentro alcuni militari, che dovrebbero essere nelle loro torrette di guardia, giocano a calcio con dei ragazzini. Appena si accorgono della presenza di stranieri cercano di ricomporsi nel migliore dei modi. Uno si avvicina. Lo saluto, mi chiede chi sono. E quando capisce che non sono lì per vigilare sulla disciplina dell’Afghanistan National Army mi invita ad entrare per visitare quello che resta dell’edificio distrutto durante la guerra civile. Poi, non curante della mia presenza, torna al suo divertimento. Sul cofano di una jeep dell’esercito, un militare afghano si riposa non curante di quello che succede attorno.

Non è una giornata qualunque, oggi, in Afghanistan. Si festeggia l’anno 1390 e il caotico traffico dei giorni lavorativi, che ti impone ore di code con auto strombazzanti per percorrere pochi chilometri, non c’è. La sicurezza, in giorni come questo, è da “codice rosso”. Organizzazioni umanitarie e rappresentanze diplomatiche hanno vietato ai dipendenti di uscire dai compound blindati e la città  diventa di esclusiva proprietà  degli afghani. Giriamo per ore senza vedere un occidentale.

I pochi veicoli in circolazione scivolano via sulle strade polverose e mal ridotte con una sorprendente facilità . Riuscendo, nonostante tutto, a rischiare incidenti per la poca attitudine dei conducenti al rispetto delle più basilari regole stradali. Davanti al “Kabul Zoo” la gente spinge per entrare. I più impazienti scavalcano la recinzione sotto un grande cartellone pubblicitario della versione afghana di “Chi vuole essere milionario”.

Sulle alte montagne innevate le telecamere “volanti” sorvegliano la capitale. “Dovrebbero servire per individuare gli insorti – mi dice Zmaray, l’autista, mentre a bordo della nostra Toyota corolla ci spostiamo per le strade semi-vuote della capitale – ma non credo che ne abbiano mai avvistato uno”.

Verso Sud, nella parte vecchia, le mura della fortezza cittadina di Bala Hissar, che non sono di cemento armato, si arrampicano attorno ad una montagna ancora coperta dalla neve. Dentro c’è una base dell’Afghanistan National Army. Fuori un mercato di animali. Sono allevatori arrivati dalle province per esibire e vendere le proprie “bestie”. Alcuni di loro sono a Kabul per la prima volta. Dalla strada è ancora possibile vedere le carcasse dei blindati sovietici.

Disseminata di mine, abbandonata, da qualche anno, grazie all’intervento del “Mine detection center”, è tornata ad essere popolata da afghani in festa. La collina di Bibi Mahrur è la vera attrazione di Kabul. Migliaia di persone appartenenti ad ogni ceto, dal medico al funzionario statale, poliziotti e disoccupati, ricchi e poveri, nessuno rinuncia ad una giornata di divertimento da queste parti. Off-limits per la maggior parte degli expats, è una vera oasi di divertimento per la popolazione locale. È qui che Khaled e Hassan, protagonisti del romanzo “il cacciatore di aquiloni”, si divertono a far svolazzare i loro arnesi.

Un aquilone che vola alto nel cielo di Kabul non è soltanto un divertimento, ma anche una sfida ai presenti. Un gioco semplice che regala ore di felicità . Vietato sotto il regime dei talebani, oggi è tornato di nuovo alla moda. Si combatte a coppia. Uno tiene il mulinello con il filo, l’altro da corda finché il giocattolo non è alto nel cielo. Facce sporche di terra e mani tagliate dalle corde di nylon prendono questo gioco veramente sul serio. Tutto attorno, ciurme di ragazzini con bastoni appuntiti attendono il momento giusto per infilzare. Sono loro i veri “cacciatori di aquiloni”. Non si vincono soldi. Chi lo infilza diventa il nuovo proprietario. Da una parte all’altra della collina che sovrasta la città , fiumi di ragazzini corrono senza sosta. I più fortunati hanno aquiloni da 1 dollaro, con colori stravaganti. Gli altri, i più poveri, che difficilmente non riconosci, corrono e saltano per averlo. Nella maggior parte dei casi il giocattolo va distrutto. Ma è l’onore di averlo catturato che più conta.

Nel grande piazzale polveroso, i cavalli corrono da una parte all’altra alzando una polvere soffocante. Uno straniero è una novità . E tutti offrono il proprio animale per una tour. “Li stiamo allenando per il buzkashi”, mi spiega un ragazzino che ha appena finito una galoppata attorno al parcheggio. “Quando sarà  finito lo stadio andremo li ad allenarli”.

Nonostante gli “alert” sulla sicurezza la giornata passa tranquilla. Mentre torniamo verso il centro, vicino al quartiere di Wazir Akbar Kha, l’auto accosta sul ciglio della strada. Accanto a noi sfrecciano 8 blindati dell’Esercito americano con il mitragliere sulla torretta. “Loro – mi dice Zmaray – sono i veri padroni dell’Afghanistan”. Il check-point di fronte all’entrata della “Green Zone”, quartier generale della diplomazia occidentale e dell’Isaf è a meno di 200 metri. Le jeep blindate in coda per entrare mi ricordano che siamo in quella che dovrebbe essere la parte sicura della città . Se non fosse che sulla mia destra c’è il “Finest” il supermercato saltato in aria a febbraio. E allora che ti ricordi che le paure degli expats sono le stesse degli afghani, in un Paese con una storia triste e un futuro ancora da scrivere.



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