by Editore | 23 Marzo 2011 8:40
Ma anche un’organizzazione operaia che fronteggia, spesso da sola, la ristrutturazione dei processi produttivi e una cancellazione di diritti incomprimibili dal mercato, spazi di autonomia e rappresentanza diretta nelle fabbriche Ritorno di Fiom di Gabriele Polo (manifestolibri, pp. 125, euro 14) è un solitario libretto controcorrente. Molto importante perché non si limita a raccontare l’epopea dei Cipputi dal 1994 ad oggi: le tre interviste ai segretari della Fiom che si sono succeduti da allora, Claudio Sabattini, Gianni Rinaldini e Maurizio Landini sono inserite nel processo di declino subìto in Italia della idea del «lavoro» come valore sociale e del «lavoratore» come portatore di diritti non comprimibili dal «mercato». Era stata una chiave dell’Italia del dopoguerra e pareva l’ovvia conseguenza della democrazia che finalmente incontravamo. Era stata essa a far uscire vittoriosi i lavoratori dai primi anni della «ricostruzione», che era stata stata prima di tutto una brutale ristrutturazione dell’industria bellica. Acciaio e cementi – casa, automobili, elettrodomestici – mutamenti nella proprietà , passaggio del paese da agricolo a industriale, grande migrazione dal sud al nord, non avevano soltanto rovesciato come un guanto l’Italietta, fatto prosperare l’economia e crescere i cervelli, ma sostenuto una sinistra politica e sindacale che negli anni sessanta non aveva pari in Europa. Un grande ’68 studentesco si era prolungato nel 1969, anch’esso unico in Europa, una straordinaria stagione di lotte di fabbrica alla conquista non solo di salari ma di una normativa, di spazi di autonomia e di rappresentanza diretta, che parevano acquisiti per sempre. Tanto che gli anni ’70 fecero dell’operaio in tuta blu e della fabbrica il simbolo dell’intera società capitalista. Era una forzatura ideologica postsessantottina? Forse. Il verticalismo del comando sociale – dalla università agli ospedali, dai giornali e fin nell’esercito e alle «istituzioni totali», carcere e manicomio – parevano avere radice nella fabbrica dove l’operaio diventava non più che «accessorio vivente alla macchina». E del suo conflitto, perché accessorio ma «vivente», vivente dunque dotato di coscienza, sola «merce» in grado di dirsi «Ma no, io non sono una cosa, un uomo è un uomo» e ribellarsi a questa condizione. Questo operaio era stato il filo rosso del secolo. In Italia il suo partito aveva animato più di qualsiasi altro la resistenza e dagli anni cinquanta in poi faceva del paese il laboratorio sociale più avanzato d’Europa. Nel quale, dopo il ’69, la categoria industriale per eccellenza, i metalmeccanici, avrebbero spezzato i confini delle confederazioni Cgil, Cisl e Uil per congiungersi nell’unica Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici), trainante a sinistra. * * * Che cosa è tornato a dividerla? E a costringere la Fiom a ricominciare daccapo, a quello che Polo chiama un «ritorno»? Due processi. Uno l’effettivo ritorno di fiamma del capitalismo liberista dei von Hayek che pareva defunto e risorgeva aggressivamente attaccando la versione keynesiana dei Trenta Gloriosi – era l’affermazione di Thatcher e di Reagan contemporanea al declino inesorabile dell’Urss. L’altro processo di natura soggettiva: il ritardo a capirlo della sinistra storica e il suo chiedersi, specie col fallimento dell’Urss, se non avesse sbagliato tutto, e il salto della sinistra radicale che, avendo intuito prima la nuova aggressività del capitale, da una parte denunciava ogni «compromesso» col medesimo, dall’altra vedeva nell’operaio di fabbrica a contratto a tempo indeterminato il nemico sia della libertà di un lavoro autonomo, detto di seconda generazione e reso possibile dal mercato del lavoro proprio del capitale cognitivo, sia della immensa massa a flessibilità totale destinata tendenzialmente a diventare precaria. Il Pci era al medesimo tempo il partito del compromesso politico e il garante di un proletariato classico e già in via di superamento che si sarebbe affidata allo stato facendo di fatto blocco con esso. L’acuirsi negli anni ’70 e ’80 dello scontro a tutti i livelli, fino al formarsi di una frangia armata, si sarebbe conclusa con la sconfitta di tutte le sinistre, moderate o radicali. Ma questa resta una storia da fare. Sta di fatto che il Cipputi in tuta blu passava nell’oblio a destra e a sinistra. Ancora oggi, in una proletarizzazione mondiale di figure e mansioni mai così estesa, il primo che passa si sente autorizzato a esclamare: «Ma dov’è finito l’operaio? Non esiste più». Oppure: «La Fiom? Ah si, è veterosindacalismo». Fino a dieci anni fa e al dilagare del precariato, i nuovi soggetti che l’esplosione del ’68 aveva liberato – e nuovi erano veramente pur non avendo nulla a che vedere l’uno con l’altro, femminismo ed ecologia – sostenevano che «il lavoro ai giovani non interessa». Così l’iniziativa del capitale, che si decostruiva e ricostruiva mutando tecnologie e organizzazione del lavoro, riducendo e dividendo la manodopera, incrociava anche il risentimento contro un sindacato che rappresentava i «garantiti» e delle problematiche del conflitto dei sessi e della difesa della natura non capiva niente. Il già sacro «diritto al lavoro» si restringeva sotto la pressione del padronato verso questa o quella forma di «flessibilità », i «tempi parziali», il «just in time», il «call on job». Lo scivolare di parte del sindacato e della maggioranza della sinistra dal «lavoro», come forma del capitale, ai «lavori», mera articolazione sociologica, avrebbe frammentato al massimo, più nelle teste che nei fatti, il salariato, e ridotto del tutto la sua forza contrattuale. * * * È in questo desolante panorama che la Fiat propone nei primi anni Novanta la suo nuovo stabilimento di Termoli. Sono passati quasi quindici anni dalla disfatta dei 35 giorni di occupazione e dalla marcia dei 40.000 a Torino. Il nuovo segretario della Fiom, Claudio Sabattini, si trova davanti nel 1994 – velenosa eredità – un accordo che fa paura, e il cui senso è «io porto occupazione in una zona disgraziata e piena di gioventù senza lavoro, voi in cambio rinunciate ai diritti che finora la vostra categoria aveva». L’aria è tale che il ricatto sembra un’occasione, ed è elogiato da tutti. A Termoli non c’è alternativa. Sabattini deve ingoiare, e ingoia. Ma si dice: «Mai più». L’anno seguente, con un convegno a Maratea, la Fiom inizia una strada che è tutta in salita nel rapporto di forza «materiale reale» e nella opinione e cultura politica. Sabattini diventa per i metalmeccanici, ma solo per loro, una figura mitica. Lo avevano accolto malamente a Termoli, come tutti i sindacalisti, quando aveva dovuto far accettare un accordo ormai irrimediabilmente compromesso: «La parola più gentile che ci dicevano – ricorda – era traditori». Non se lo farà dire mai più. Chi lo ha conosciuto negli otto anni che è rimato al suo posto non può dimenticare con quanta determinazione e collera affermava prima di tutto l’indipendenza della Fiom, che aveva da rispondere soltanto ai lavoratori e cercare soltanto assieme a loro il punto dove attestarsi. Loro non erano solo la gente della sua categoria: quando a Genova, durante la manifestazione degli altermondialisti, viene ucciso Carlo Giuliani, la Fiom partecipa al grande corteo di protesta; contro il parere della Cgil. «Ma questo non è più fare sindacato, è fare politica», gli si obietta virtuosamente dalle sue parti e con acrimonia dalle altre. Può darsi, il sociale diventa a un certo punto lo stesso del politico, egli ribatte – lo diventa nella sostanza, e non ha a niente che fare con l’affidamento a una istituzione altra o a un partito più o meno amici. Quando nel 2002 Sabattini viene colpito da un male improvviso e mortale, la segreteria della Fiom passa a Gianni Rinaldini. Diversamente da Claudio non viene dai metalmeccanici ma dalla Cgil emiliana, ne ha la ostinazione e saggezza, meno carisma ma non minore determinazione di Claudio e «tirerà » la metallurgia ogni anno su di un metro, forse due, firmando accordi e non firmando, abile nel dividere un padronato che non sempre si sente di affrontare lo scontro. Ma non ha un dubbio sulla direzione di marcia dei capitali, sul peso della mondializzazione, e quindi sull’appoggiare ogni possibile alleato nei movimenti. Sarà affar suo la battaglia della Fiat di Melfi. L’astronave, come la definisce Polo, calata dalla Fiat nel mezzogiorno, dove la Fiom sperimenterà non solo le pressioni e iniziative della proprietà , ma anche la difficoltà di far agire solidariamente fra loro dei lavoratori spaventati, non riuscirà a far muovere assieme quelli della Fiat di Termini Imerese con quelli di Melfi. Su di lui ancora più che su Sabattini piove l’accusa di «far politica» perché ricusa di anteporre la tattica del «governo amico» Prodi alle priorità del sindacato. Quando il segretario della Cgil Epifani accetta il «collegato lavoro» di Prodi, pena causarne la caduta, compie l’errore definitivo di quell’incerto governo, che cade lo stesso disastrosamente e trascina con sé tutta la rappresentanza della sinistra radicale. Neanche un anno fa Rinaldini, finito il suo mandato, cede il passo a Maurizio Landini. Ed è Landini che dovrà scontrarsi, sempre in Fiat, con l’arroganza dell’italo canadese Marchionne, deciso a passare oltre non solo a qualsiasi pratica, ma legge e fin al dettato costituzionale a difesa dei lavoratori. Marchionne presenta un accordo inaccettabile, che Cisl e Uil firmano mentre si rifiuta ad esso la Fiom. Più sola che mai: sia l’ex segretario Ds, Fassino, sia il sindaco Pd di Torino, Chiamparino, dichiarano urbi et orbi «Se fossi un operaio Fiat firmerei». Marchionne procede senza Fiom, che vorrebbe fuori dai piedi e dai reparti, perfino senza Confindustria, da «padrone illimitato», non tenuto a niente e chiama i suoi dipendenti a un referendum lealista, con la minaccia di sottrarre la Fiat all’Italia. Il referendum passa ingloriosamente, quasi uno dei dipendenti su due ha votato contro; la Fiom non è eludibile. È più forte, nel numero degli iscritti e nel peso politico che non fosse venti anni fa. E anche se la Cgil esita a seguirla, Epifani, in uscita, si lascia sfuggire un «La Fiom aveva ragione» che la dice lunga. * * * Ma come può vincere un sindacato da solo? In Italia non c’è più una rappresentanza politica forte che si dica dalla parte del lavoro, come era stato il primo Pci e come sono state, fuori d’Italia, alcune socialdemocrazie. In Europa le confederazioni sindacali sono divise e patentemente in ritardo; l’essersi formate dentro uno stato e davanti a un capitale in massima parte nazionale le inchioda ancora nella incapacità di capire un padronato più di ieri mondiale, una proprietà che si scioglie o si riunisce sopra le loro teste, che gioca crudelmente sulle varianti del costo del lavoro nei paesi terzi e più negli emergenti, e in un’Europa che s’è unificata monetariamente sotto l’egida di un neo liberismo e nel tempo della massima finanziarizzazione, della quale i salariati subiscono tutte le crisi. Questo è il quadro che ha davanti a sé la Fiom di Maurizio Landini (o, se si vuole, Maurizio Landini della Fiom). Questo sta alle spalle dello sconquasso della sinistra. O si afferra questo toro per le corna o si ha un bel dire che il capitalismo è in crisi – chi non ha capitali galleggerà per un poco sulle ultime richieste del mercato del lavoro, ma nel medio termine già ogni contrattualità , per non dire ogni autonomia, sarà perduta.
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