Interventismo all’italiana contro l’amico dittatore

by Editore | 28 Marzo 2011 5:58

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Andammo per inventarci un impero proprio mentre si avvicinava il crollo dei grandi imperi europei, al cui rango pretendevamo di elevarci. Non sapevamo quasi nulla delle terre e delle genti da redimere. Solo che ci erano inferiori. Sicché quando i libici, in specie le tribù della Cirenaica, si ribellarono al padrone, ne sterminammo a man salva alcune decine di migliaia (almeno), e ancor più ne deportammo. In perfetto stile razzista. Tutto finì con la disfatta nella seconda guerra mondiale, prologo della perdita delle colonie. Gli ultimi italiani pensò Gheddafi a cacciarli, nel 1970. Ma sia l’Italia democristiana che l’attuale mantennero con il colonnello un rapporto di utilità  (energia) e protezione (rispetto al terrorismo islamico e ai flussi migratori), coltivato spesso in barba agli alleati occidentali – quando erano davvero tali. Oggi l’Italia del Centocinquantenario riscopre se stessa intervenendo in Libia nella “guerra umanitaria” fermissimamente voluta da Sarkozy per ragioni di prestigio, d’influenza, ma soprattutto per restare all’Eliseo. Infatti interveniamo all’italiana: malvolentieri, senza impegnarci a fondo né credere in quel poco che diciamo, nella certezza di contribuire a minare i nostri interessi economici e di sicurezza. E di non poter fare altrimenti. Berlusconi si dispiace per Gheddafi, tiene il muso a Sarkozy, inventa improbabili iniziative diplomatiche. Nessuno lo prende – ci prende – sul serio. Né lo farà  mai, finché noi continueremo a non prenderci sul serio. Non sappiamo come la guerra di Libia andrà  a finire. Sappiamo però che l’avremo comunque persa. E con essa la faccia, com’è giusto che sia per chi in ogni crisi corre ad attendarsi fra due sedie. Peggio. Nella guerra di Libia riaffiora la vena razzista che pensavamo di aver sepolto con il fascismo. Il trattamento che riserviamo ai migranti – circa 18 mila da gennaio a oggi – fortunosamente sbarcati in Italia in questi mesi di crisi arabe a ripetizione non è degno della nostra storia, pur con tanta partecipazione celebrata nella festa del 17 marzo. A forza di disputare sul loro status giuridico – profughi, clandestini o quant’altro – tendiamo a dimenticare che sono persone. Malgrado l’impegno di molti, funzionari pubblici e volontari, abbiamo lasciato che Lampedusa si trasformasse in un girone dell’inferno. Per i migranti come per gli abitanti dell’isola. In un clima da 8 settembre, dove ognuno cerca di scaricare le responsabilità  sull’altro. E dove la solidarietà  fra italiani, e fra noi e persone comunque sofferenti, sembra evaporare al contatto con l’emergenza. Un paese di sessanta milioni di anime, in maggioranza più che benestanti, dimentica le sue antiche tradizioni civili e si lascia agitare dalla fobia dell’invasione. Questa sarebbe l’Italia unita di cui abbiamo appena festeggiato i primi centocinquant’anni? Il nostro modo di (non) partecipare alla campagna di Libia e di (non) accogliere uomini, donne, bambini e bambine che attraversano il Canale di Sicilia – una modesta percentuale degli irregolari che ogni anno vengono da noi soprattutto via terra – ci dice molto sull’istinto xenofobo che corre sotto la pelle di buona parte della nostra classe politica e della nostra società . Non vogliamo capire che intorno a noi il mondo corre e non aspetta chi sta fermo, abbarbicato alla cultura della rendita, nella voluta ignoranza di quanto accade oltre le nostre frontiere. Abbiamo salutato con notevole freddezza le rivoluzioni tuttora incompiute di Tunisia e d’Egitto. Inizialmente simpatizzando, ma non troppo, con i giovani e con i nuovi attori che vorrebbero finalmente aprire la sponda Sud del Mediterraneo a orizzonti di libertà  e di giustizia. L’umore è rapidamente cambiato. Sono bastati gli sbarchi a Lampedusa di alcune migliaia di persone per rivelare il retropensiero non solo leghista: “Aridatece er puzzone”. Qualcuno riporti Ben Ali a Tunisi e Mubarak al Cairo. E se Gheddafi non ce la fa, provvediamo a sostituirlo con un altro dittatore disposto a bloccare con qualsiasi mezzo – certo non gratuitamente – l’invasione incombente di pezzenti e postulanti. Non siamo ancora alla “difesa della razza”. Ma non è mai troppo presto per difenderci da analoghi orrori, di cui potremmo incolpare soltanto noi stessi.

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