In difesa di sorella acqua

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 Ora quei due mondi sono obbligati ad avvicinarsi sempre di più, fino ad incontrarsi nelle fatali giornate dei referendum. Lì confluiranno iniziative diverse. Alcune, quelle riguardanti il nucleare e il legittimo impedimento, sono state promosse dall’Italia dei Valori. Altre due, che hanno come oggetto la gestione dell’acqua, sono nate da una straordinaria mobilitazione di persone, gruppi, associazioni che, senza alcun sostegno del sistema dell’informazione, hanno raccolto un milione e quattrocentomila firme, un risultato mai raggiunto nella storia referendaria. Così i partiti sono chiamati a definire il loro rapporto con questo mondo che li circonda e che si esprime con modalità  irriducibili agli schemi stanchi e ripetitivi di una politica logorata. Non dovranno confrontarsi con l’antipolitica, ma con la realtà  di una politica diffusa. Nella maggioranza sono già  evidenti i segni di una fuga dai referendum, la speranza che il quorum non venga raggiunto. E le diverse e variegate opposizioni hanno una occasione, forse irripetibile, per cominciare a ricostruire un consenso non più logorato da logiche oligarchiche, da culture autoreferenziali, da tattiche di brevissimo respiro. Vi è un tratto che avvicina proposte referendarie nelle apparenze così lontane. È il “comune”, quello che ci porta (o dovrebbe portarci) al di là  degli egoismi e dei particolarismi, verso l’interesse generale, e così costruisce legami sociali. È giusto, allora, che siano i cittadini a dire la parola definitiva. Di che cosa ci parlano i referendum? Di un bene al quale è affidata la sopravvivenza – l’acqua. Di una condizione che riguarda la nostra stessa vita – la sicurezza. Di un principio dal quale una democrazia non può mai separarsi – l’eguaglianza. Attraverso questioni specifiche si giunge così a nodi essenziali dell’organizzazione sociale. E, eccezion fatta per il legittimo impedimento in cui si riflette lo stato miserando in cui si trova la legalità  in casa nostra, si tratta di questioni che attraversano l’intero pianeta. Una conferma, drammatica, arriva proprio dalle vicende di queste settimane. La catastrofe in Giappone ha riproposto il tema dell’energia nucleare con una radicalità  che nessuna furberia consolatoria può eludere. Per il Maghreb si stima che, se non verranno prese misure adeguate, si andrà  verso una crisi idrica che, nel 2050, interesserà  il 90% della popolazione di quell’area. Pensiamo davvero che ci si possa inoltrare in questo futuro che è già  presente con le categorie concettuali, le coalizioni d’interesse, gli strumenti ai quali ci siamo finora affidati? Parole nuove percorrono il mondo. No copyright, software libero, accesso all’acqua, al cibo, alla salute, alla conoscenza, ad Internet come nuovi diritti fondamentali della persona. Intorno a questa inedita prospettiva sta davvero nascendo un altro genere di cittadinanza, non più legata all’appartenenza ad un territorio, ma caratterizzata appunto dalla dotazione di diritti che ogni persona porta con sé, quale che sia il luogo in cui si trova. Così, davvero, l’intero mondo si configura come uno spazio “comune”. Ingenua utopia, illusione, estremo bagliore di una “ideologia” dei diritti fondamentali ormai al tramonto? O non è piuttosto vero che proprio l’osservazione della realtà  ci mostra il numero crescente di persone che si mobilita in nome di diritti che non sono ricavati dal “canone occidentale”, ma corrispondono a condizioni materiali dalle quali ci si vuole liberare e che spingono verso il nuovo “costituzionalismo dei bisogni” che ispira, ad esempio, le carte costituzionali di quello che era detto il Sud del mondo? E sono proprio i diritti così intesi ad indicare la via per una loro effettiva soddisfazione, che porta appunto verso i beni comuni, espressione di una diversa razionalità  politica, economica, sociale, culturale. Si individua così una categoria di beni “a titolarità  diffusa”, sottratta alla pura logica mercantile, messa in rapporto diretto con tutti gli interessati, in tal modo promotrice di eguaglianza. Non sono soltanto parole d’ordine. La considerazione dell’acqua come bene comune, sottratta alla stessa tirannia della contrapposizione tra pubblico e privato, ispira azioni concrete, capillari. Municipalità  grandi e piccole si muovono in questa direzione. Ieri Parigi, oggi Berlino, dove si è appena svolto un referendum che ha visto il 90% dei votanti esprimersi per un ritorno alla gestione pubblica. Si obietta: ma lì ha votato solo il 27% della popolazione. Quanto basta per superare il quorum, fissato al 25%, per evitare manovre volte a sterilizzare il voto dei cittadini attivi e consapevoli (il vergognoso caso italiano del referendum sulla procreazione assistita), per rincuorare quanti fidano ancora nella possibilità  di rivitalizzare la stanca democrazia rappresentativa grazie alla partecipazione convinta delle persone. Ricordiamo che il Trattato di Lisbona si è mosso proprio in questa direzione, prevedendo che un milione di cittadini europei possa presentare proposte per l’attuazione dei trattati. Di fronte ad una prospettiva così ricca e così impegnativa, davvero una sfida per tutti, come reagisce il Governo della Repubblica? Prima opponendosi all’ammissibilità  dei referendum e, una volta di più, la Corte costituzionale ha smentito la sua tesi. Ora ricorrendo al sotterfugio di una moratoria riguardante il nucleare, accompagnata da una virtuosa dichiarazione di un ministro che si è augurato che i cittadini non votino cedendo a strumentalizzazioni, all’emozione suscitata dal disastro giapponese. Dio mio, quanto deve essere emotiva Angela Merkel se dichiara «prima si uscirà  dal nucleare e meglio sarà ».


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