by Editore | 31 Marzo 2011 6:57
ROMA – Quando ormai se ne è andato un altro giorno di annunci di cartapesta, per il Governo si fa buio pesto. La Tunisia chiude ogni spiraglio alla possibilità di rimpatri di massa. E, nelle stesse ore, il ministero dell’Interno, e con lui Palazzo Chigi, perde rumorosamente un pezzo significativo della macchina incaricata di gestire la crisi dei rifugiati. Il sottosegretario Alfredo Mantovano si dimette infatti sbattendo la porta, denunciando un dissenso radicale sulla gestione dell’emergenza a trazione integrale leghista. Che la situazione precipiti non riesce del resto a nasconderlo neanche Roberto Maroni. A sera, il ministro dell’Interno, che ancora nel pomeriggio, durante il question time in Parlamento, si era mostrato sicuro delle sue decisioni e di quelle della maggioranza, annulla d’improvviso la riunione quotidiana dell’Unità di Crisi. E chiuso nel suo ufficio al Viminale vede venire giù le fragili fondamenta politiche e diplomatiche su cui aveva annunciato, nelle ultime 48 ore, di avere costruito il piano di uscita dall’emergenza. Il primo, cruciale smottamento, arriva come detto dall’altra riva del Mediterraneo. Il governo tunisino, nonostante il cambio in corsa del suo ministro dell’Interno (incontrato a Tunisi da Maroni e Frattini il 25 marzo scorso e ritenuto da Roma “poco ragionevole”), ribadisce infatti attraverso i suoi canali diplomatici con il nostro Paese di non avere alcuna intenzione di chiudere un accordo per rimpatri di massa. Che, in questo momento, la “buona volontà ” di Tunisi e «l’impegno a collaborare nella gestione dell’emergenza» non può andare oltre la «promessa di una maggiore sorveglianza» del tratto costiero di Zarzis. Che se rimpatri ci saranno, il massimo sforzo che Tunisi potrà produrre, sarà quello di riaccogliere non più di 100, 200 dei circa 15 mila migranti tunisini che hanno raggiunto Lampedusa. Appena un quinto dei 1000 auspicati e annunciati da Maroni appena 48 ore fa. E che, in ogni caso, anche questo sforzo, dal momento che tradisce la lettera degli accordi bilaterali tra i due Paesi (secondo i quali la Tunisia non accetta rimpatri che superino i 4, 5 clandestini al giorno), andrà comunque negoziato. Insomma, che ci vorrà del tempo. E che il fatto che Roma ripeta che ci saranno «rimpatri di massa» non li rende per questo praticabili. Il no tunisino è la prova che la forzatura leghista di questi giorni non ha portato e non porta da nessuna parte. Che il pugno sul tavolo è stato controproducente. Con effetti speculari, ora, anche nella maggioranza. Le dimissioni di Alfredo Mantovano, che per lunghe ore Maroni prova a far rientrare, arrivano infatti un minuto dopo che il sottosegretario ha saputo che il primo carico di migranti tunisini in partenza da Lampedusa sbarcherà a Taranto 1500 anime perché vengano stipate nella tendopoli di Manduria (provincia di Taranto), già al limite della capienza con i suoi 1.300 ospiti. Quella decisione di Maroni umilia il pugliese Mantovano nel suo collegio elettorale, la Puglia. E per giunta, lo fa in una città , Manduria, dove, ancora pochi giorni fa, il sottosegretario aveva deciso di andare a mettere la faccia, impegnandosi con il consiglio comunale, a nome del ministero dell’Interno, che la tendopoli non avrebbe superato i 1.400 ospiti. Quel che è peggio per Maroni e la Lega è che le dimissioni di Mantovano segnalano che un pezzo di maggioranza ha deciso di sfilarsi dalla gestione di una crisi in cui, evidentemente, ha definitivamente realizzato che chi conta è il solo Bossi. Alle dimissioni del sottosegretario all’Interno (cui il sindaco di Roma Gianni Alemanno decide di esprimere la sua pubblica solidarietà ), seguono infatti quelle del sindaco di Manduria, Paolo Tommasino (Pdl), e, soprattutto, le parole del ministro della Difesa Ignazio La Russa. «Spero – dice – che siano dimissioni simboliche. Che siano dimissioni di denuncia. Mantovano è la persona più adatta a valutare l’eccessivo numero di immigrati. Se lui dice così, e cioè che il numero di immigrati trasferiti a Manduria è eccessivo io sono propenso ad ascoltarlo». Vedremo in che conto la Lega terrà il significato politico di questo strappo. È un fatto che le parole che si raccoglievano ieri sera tardi al Dipartimento della Pubblica sicurezza, tra gli uomini incaricati di gestire l’emergenza, testimoniavano un assoluto disorientamento. «Così è impossibile uscirne – confidava una qualificata fonte del Dipartimento – Qualcuno, prima o poi, dovrà spiegarci chi decide e se quello che si è deciso vale un giorno, un’ora o un minuto».
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