Gli imprenditori della paura

by Editore | 25 Marzo 2011 7:08

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“Travolti dall’orda. E l’Ue dorme. Crisi senza precedenti, un altro Muro di Berlino. Respingimenti impossibili senza la collaborazione della Tunisia. Sempre più elevato il rischio infiltrazioni di Al Qaeda” (15 febbraio). “Maroni: Libia, pericolo Al Qaeda” (25 febbraio). “Maroni: l’argine sta crollando” (8 marzo). Mai in passato un responsabile dell’ordine pubblico si era così prodigato nel seminare il panico; sposando acriticamente la propaganda di Gheddafi: sia quando accusa gli insorti di essere terroristi, sia quando minaccia l’assalto dei profughi alle coste europee. Ma è il governo nel suo insieme a incaricarsi di una mera funzione di contenimento, ignorando le opportunità  storiche che i rivolgimenti in corso sulla sponda sud del Mediterraneo potrebbero riservare a un paese come il nostro, afflitto da invecchiamento demografico e crescita rallentata. Nei secoli l’Italia ha sempre conosciuto la prosperità  collegandosi allo sviluppo armonico del Nordafrica e del Levante. Mentre ha patito i contraccolpi delle fasi storiche in cui i nostri vicini meridionali sono arretrati. Dare per scontato che la rivolta giovanile in corso nel mondo arabo debba sfociare necessariamente in oscurantismo e spinta migratoria, alimenta nella nostra sfiduciata classe dirigente una coazione a ripetere. Eccola, allora, protesa nervosamente nel vano tentativo di ricostruire in fretta e furia un’altra diga. Non a caso Berlusconi ancora oggi rivendica come “capolavoro politico” il Trattato d’amicizia italo-libico firmato a Bengasi il 10 agosto 2008 e già  miseramente fallito. L’esito inglorioso della partnership con Gheddafi, costosa e moralmente discutibile, sembra non averci insegnato nulla. Davvero pensiamo che in futuro potremo cavarcela finanziando profumatamente altri gendarmi che sorveglino le coste e garantiscano l’approvvigionamento energetico? L’ideologia leghista evidenzia oggi tutto il suo anacronismo. Pare quasi che Maroni viva con dispetto le aspirazioni di libertà  diffuse nel mondo arabo e attenda che la “rivoluzione dei gelsomini” ceda il passo ai kamikaze, più congeniali alla sua politica allarmista. Come un disco rotto, sa ripetere soltanto le solite parole magiche, “clandestini” e “terroristi”, per mantenere l’opinione pubblica italiana prigioniera della paura. E se invece l’Eurabia preconizzata come un incubo da Oriana Fallaci si rivelasse in futuro un amalgama ben diverso, fondato su società  aperte? Se l'”infelicità  araba” narrata dal martire della democrazia libanese Samir Kassir come compiacimento vittimistico egemonizzato dall’integralismo, cedesse spazio alla speranza di una nuova, amichevole “felicità  araba”? Tale eventualità  viene liquidata con sarcasmo dal nuovo pacifismo di destra all’italiana, animato peraltro dagli ex guerrafondai nostalgici di Bush. Le sue connotazioni prevalenti sono l’isolazionismo e il vittimismo. Nega la potenzialità  di un’azione internazionale concertata a sostegno delle rivolte popolari. E s’inviperisce contro il protagonismo di Sarkozy accusandolo di volerci sottrarre zone d’influenza neocoloniali. “A loro il petrolio, a noi i clandestini” è il titolo demagogico di Libero che meglio sintetizza questo istinto di autocommiserazione. L’unico impegno con cui il governo di centrodestra si presenta di fronte ai cittadini italiani è quello a sollecitare l’Unione europea nel respingimento dei profughi e nella loro ripartizione fra gli Stati membri. Peccato che il famoso “Esodo biblico”, lo “Tsunami umano”, finora abbia provocato l’intasamento della sola minuscola isola di Lampedusa, senza assumere le proporzioni di un’emergenza paragonabile agli effetti delle guerre balcaniche. Ma non importa: gli imprenditori politici della paura riuscirono a moltiplicare per dieci o per cento anche il “pericolo rom”, figuriamoci se non approfitteranno dell’esigua minoranza di fuggiaschi che anziché espatriare in Tunisia e in Egitto (dove ne arrivano davvero molti) raggiungono le coste italiane. Per loro già  si prepara il trattamento di sempre: “A casa i finti profughi” (Il Giornale). Condito con quel di più di cinismo in cui per primo si distingue il governatore veneto Luca Zaia: «Questi non sono disperati, hanno soldi e abiti griffati». È chiaro che questo governo anacronistico, trascinato controvoglia in un conflitto dal cui esito felice si sentirebbe minacciato, confida sulla repressione della rivolta araba. Ma l’interesse nazionale dell’Italia va in direzione opposta. I reazionari, orfani dei dittatori-amici, stavolta sono asserragliati sulla sponda nord.

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