by Editore | 23 Marzo 2011 7:45
O se un razzo katiuscia sparato dalla controffensiva del Colonnello in Cirenaica colpisse il tempio di Zeus o il santuario di Apollo della splendida città ellenistica di Cirene? «Quello che preoccupa e che stupisce è che non siano state prese precauzioni per tentare di salvaguardare uno dei patrimoni archeologici più preziosi del pianeta», dice la professoressa Barbara Barich dell’Università La Sapienza, che insegna Etnografia preistorica dell’Africa e che scava da circa quattro decenni in Libia, dove prima della rivolta del 17 febbraio lavorava una dozzina di missioni archeologiche italiane. «Tutti i siti più importanti sono costieri, perciò sono tutti a rischio. I miei timori non nascono soltanto dalle bombe intelligenti che possono sbagliare bersaglio. Penso anche ai numerosi siti archeologici che potrebbero diventare il palcoscenico del conflitto. Mi chiedo perché nessuno ne parla e perché nessuno ha ancora dato l’allarme. Se Roma fosse bersagliata da caccia militari, credo che ai piloti sarebbe espressamente vietato di colpire luoghi come San Pietro. In Libia, ciò non accade». Le minacce gravano anche sui giacimenti preistorici del Paese. Sempre in Cirenaica, a Jebel Akhdar, c’è un enorme sito che per decenni è rimasto chiuso per motivi militari e che è stato riaperto agli scavi solo 2007 grazie all’Università di Cambridge: «È un luogo essenziale per capire il popolamento del Mediterraneo dell’Homo sapiens proveniente dall’Africa. Ora, pur non trattandosi di una città greca, è una splendida grotta che si vede dalla costa e che spero venga risparmiata dai bombardamenti». All’inizio della rivoluzione libica, le bombe di Gheddafi non hanno invece risparmiato la città occidentale di Nalut, che è stata pesantemente colpita con i suoi castelli medioevali. I dubbi della professoressa Barich sono condivisi da molti suoi colleghi. Dice il professor Savino Di Lernia, responsabile della missione italo-libica nell’Acacus e nel Messak: «Ciò che temo di più per il patrimonio archeologico della Libia è che venga usato come forma di pressione e di rivendicazione. Basti pensare alle statue dei Budda abbattute in Afghanistan dai taliban. Non mi sorprenderebbe se ora, di fronte ad una vasta propaganda contro l’Italia, ci fosse un gesto dissennato contro i siti». Le vestigia monumentali del paese sono concentrate nel nord del Paese. Sono città fenice, puniche, greche e romane. Nel corso della Storia recente, queste ultime sono state utilizzate per sottolineare alternativamente l’amicizia o l’inimicizia tra la Libia e l’Italia. Spiega ancora in professor Di Lernia: «Penso, nella fattispecie, a Sabratha, che si trova vicino a Tripoli dove si sono verificati alcuni scontri. O anche a Leptis Magna che si trova a metà strada tra Tripoli e Misurata e a Cirene, nel cuore della Cirenaica. Siti inseriti nella lista dell’Unesco e che potrebbero nuovamente essere usati strumentalmente contro di noi». Rientrato in Italia in fretta e furia il 25 febbraio con un aereo militare, Di Lernia sottolinea che «il primo problema per molti di questi siti è che sono stati inglobati nelle città e delle periferie urbane: da questo punto di vista Sabratha e Cirene sono due punti critici». C’è poi un altro tipo di ritorsione possibile, che potrebbe avere conseguenze nefaste a lungo termine. Consiste, per esempio, nel distruggere un sito archeologico in Cirenaica, annullando i futuri introiti turistici della regione. In situazioni di conflitto il patrimonio artistico può diventare merce di scambio. Ma può anche essere impiegato per affermare o negare l’identità libica. Se i siti a rischio sono tutti sulla costa, quelli nel sud-ovest e del sud-est, famosi per un’archeologia molto antica e per l’arte rupestre preistorica sono più al sicuro. «Tuttavia, proprio ieri le forze delle coalizione hanno bombardato la città di Saba, nel sud del Paese, vicino agli scavi della missione che dirigo». Un dato appare certo, spiega infine il professore. «Gli occidentali non potranno salvare il patrimonio artistico dell’Unesco, poiché nessun intervento può essere messo in cantiere se non richiesto dal paese che ospita i beni archeologici».
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