Beni comuni e predazione privata
Nulla è più utile dell’acqua, ma difficilmente con essa si comprerà qualcosa (…). Un diamante al contrario ha difficilmente qualche valore d’uso, ma in cambio di esso si può ottenere una grandissima quantità di altri beni». A quasi due secoli e mezzo di distanza possiamo misurare il cammino percorso nel frattempo dal capitalismo. Quella che era una risorsa fondamentale alla vita umana, ma libera, perché non appartenente a nessuno e priva di valore in quanto straordinariamente abbondante, è oggi diventata una preziosissima merce. La sua scarsità in rapporto ai bisogni della popolazione, e le possibilità tecniche della sua distribuzione e partizione la rendono un bene di mercato. Le risorse fondamentali dell’umanità , la terra, le foreste, i mari, l’aria salubre, i minerali e le fonti di energie del sottosuolo, proprio perché diventano sempre più scarsi, e in virtù delle crescenti possibilità tecniche del loro utilizzo, si trasformano in merci sempre più ambite e «recintabili» dai privati. L’accaparramento delle terre agricole in Africa da parte della Cina e dell’Arabia Saudita ci illustra con eloquenza il fenomeno in atto. Così possiamo facilmente prevedere l’aspro conflitto che si para davanti a noi. Mentre finalmente prendiamo atto che le risorse non sono infinite, e che essendo indispensabili per la sopravvivenza stessa dell’umanità sono patrimonio di tutti i viventi, il capitalismo tende a trasformare la sopraggiunta scarsità in nuovi territori di profitti privati. Anzi – come ad esempio nella imposizione di brevetti su piante che appartengono alla sapienza degli indigeni – esso crea una scarsità artificiale attraverso l’istituzione di un monopolio su un bene che prima apparteneva alle comunità locali. Ora, la difesa teorica che sta alla base di tale predazione, che può condurre l’umanità a dilaniarsi in guerre distruttive, sta tutta in una argomentazione molto semplice, a cui gli economisti di varie tendenze danno da tempo dignità culturale. I privati – essi sostengono – investono i propri capitali in queste risorse e le valorizzano, le rendono più facilmente disponibili: ad es. nel caso dell’acqua costruendo acquedotti, provvedendo alla loro manutenzione, ecc. I privati ricavano certo profitti dai pagamenti dei cittadini-utenti, ma proprio quei profitti attesi li spingono all’efficienza economica, alla cura e conservazione della risorsa, con vantaggio generale. La gestione pubblica è invece inefficiente e fallimentare. Proverò a mostrare che l’argomentazione non regge né alla prova della storia né della teoria. È noto che in Italia tanto l’acqua potabile che altri servizi per buona parte dell”800 furono gestiti da società private. I risultati furono talmente fallimentari, sia sotto il profilo dei prezzi agli utenti che della qualità del servizio, da convincere non solo i socialisti, ma anche i cattolici e gli stessi liberali a municipalizzare l’acqua delle città . Come ha ricordato di recente un giovane storico, Lorenzo Verdirosi, perfino Luigi Einaudi se ne persuase, affermando che «quando un servizio assume carattere monopolistico non resta per l’ente pubblico che la soluzione della gestione diretta». E i comuni hanno poi scritto una pagina importante per la diffusione delle risorse idriche nelle piazze e nelle case degli italiani. La base dell’errore teorico che assegna il primato dell’efficienza ai privati in ambito di gestione dei beni comuni sta in questa convinzione: l’assenza di una ricerca del profitto priva la gestione pubblica di quel rigore nei conti economici che alla fine sfocia nelle passività di bilancio e nel collasso. La sottrazione alla libera competizione nel mercato le fa mancare gli stimoli all’innovazione tecnologica, ecc. Ma è proprio così? La storia dell’economia italiana offre un buon repertorio di smentite in proposito. Forse che l’Eni o la Società Autostrade hanno fatto mancare profitti alle casse pubbliche, finché erano statali, o non sono stati capaci di innovazione? E tuttavia, quando si gestiscono beni comuni, il fine non è il profitto, ma la distribuzione ottimale di un bene o di un servizio. In questo caso è la finalità sociale a essere preminente. Certo, la cattiva amministrazione non è mai rivoluzionaria. Ma non è la ricerca di soddisfare l’interesse collettivo, con criteri di economicità il punto debole della gestione dei beni comuni. È l’invasione da parte dei privati, che alterano la buona amministrazione pubblica. Quello che è un problema di trasparenza, di controllo partecipato dei cittadini, insomma una questione di democrazia, viene trasformato in un principio ideologico: solo l’egoismo privato del profitto garantisce l’efficienza! Ma l’egoismo privato è efficiente, socialmente vantaggioso? Ricordiamo che tale principio ideologico ha assunto la guida monopolistica dell’economia mondiale da almeno 30 anni. Chi non ricorda il refrain che uno dei padri del neoliberismo, Milton Friedman, premio Nobel per l’economia nel 1976, ripeteva nelle sue interviste? «Il fine di ogni impresa è fare profitti». Ebbene, non pare che tale fine supremo, applicato a un bene pubblico come la salute, abbia portato efficienza e vantaggi generali alla sanità americana, la più costosa e iniqua dei paesi avanzati. Né sembra che esso abbia impedito la messa in atto di truffe colossali ai danni dei cittadini e dei risparmiatori, come hanno provato la vicenda, ad esempio, di Enron o di Parmalat. Tanto per limitarci a casi universalmente noti. E che cos’è, del resto, la Grande Crisi dei nostri anni se non la somma generale dei singoli e ciechi egoismi privati? Ma noi in Italia possiamo offrire esempi sontuosi di «successo» di tale principio. Forse che i casalesi o gli ‘ndranghetisti non perseguono, con stringente razionalità economica lo scopo del loro privato profitto, ammazzando chi lo contrasta? Non realizzano profitti le imprese del nord che smaltiscono clandestinamente rifiuti tossici, avvelenando i terreni e probabilmente anche i mari, di tante regioni del sud? E allora chiediamo: che fine fa l’interesse generale, che cosa possono le leggi di uno Stato, se l’interesse privato diventa un principio regolatore dell’etica pubblica? Il referendum per l’acqua pubblica, dunque, non è solo una singola partita da vincere. È un passaggio strategico fondamentale. Perché esso può schiudere un orizzonte nuovo di lotte per la trasformazione radicale della società capitalistica. Da quella possibile vittoria si può partire per annettere ai territori dei beni comuni, non solo quelli che sono appartenuti al welfare novecentesco (salute, istruzione, casa) ma anche i nuovi e sempre più irrinunciabili da sottrarre alla predazione del mercato: le terre agricole, l’alimentazione, la biodiversità , la salubrità ambientale, l’energia, il lavoro.
Related Articles
Una partneship sui rifiuti
Fondazione con il sud. Da 400 organizzazioni del terzo settore 60 progetti per provare a cambiare marcia
Il governatore con i No Triv: «No all’oltraggio del nostro mare»
LA RIVOLTA DELLE TREMITI Contro l’ok alle compagnie petrolifere. La Regione mobilitata contro le indagini geosismiche, farà ricorso
Non è come Tangentopoli, è peggio. A Venezia il «sistema» è lo Stato
Consorzio Venezia Nuova. Uno scandalo nazionale denunciato da anni, reso possibile da una convergenza politica antica e trasversale, con complicità ai più alti livelli della pubblica amministrazione e degli organismi di controllo