Al fronte in sella a una Kawasaki i sorridenti guerrieri della rivoluzione

by Editore | 23 Marzo 2011 8:31

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BENGASI – È un po’ sbruffone. Non sarà  infatti facile riprendere Ras Lanuf perché quel centro petrolifero, uno dei più importanti, in bilico sulla costa mediterranea, si trova a più di duecento chilometri, è dopo Brega, anch’essa occupata da Gheddafi, sulla strada per Tripoli. E prima di raggiungere Brega, bisogna recuperare Ajdabiya, un osso duro con il quale sono alle prese in queste ore gli insorti, rinfrancati dagli aerei della provvidenziale coalizione dell’Onu in volo nel cielo della Libia. Ali è a cavallo di una Kawasaki immobile, con il motore acceso, davanti al palazzo del Tribunale, dove si trova il Consiglio nazionale di Bengasi. Ha un kalashnikov a tracolla e dimostra la sua impazienza tormentando l’acceleratore. Ha fretta di raggiungere il fronte. Gli chiedo se parte in guerra da solo e mi risponde che ha con sé il Tnt. Mi indica le due sacche posteriori della motocicletta. Sono gonfie. Sono piene di bastoni di dinamite. Dinamite per la pesca nel Mediterraneo che adesso serve da artiglieria (Ali dice proprio così) contro i gheddafisti. Ali non deve avere vent’anni, la barba lo invecchia un po’, indossa camicia a scacchi e blue jeans. L’esercito della Libia libera non ha una divisa. Non ha avuto il tempo di disegnarne una. Neanche ci ha pensato. Non ha avuto neanche il tempo di organizzarsi in unità  di stampo militare. È un esercito sbrindellato, con cappelli da cowboy, giubbotti di cuoio, kefiah alla palestinese, berretti da malavita, ma anche abiti borghesi, composti, da gente anonima, perbene. C’è di tutto. Alcuni reparti sembrano disciplinati, come possono esserlo studenti, operai, contadini, professionisti, funzionari, offertisi volontari, e messi insieme a casaccio, di gran fretta, dopo un addestramento di poche ore, con armi d’occasione, abbandonate o consegnate dai disertori della polizia e dell’esercito. Oppure arrivate dall’Egitto e fornite non si sa da chi. In quanto ai mezzi di trasporto, per percorrere le grandi distanze tra una città  e l’altra, nel deserto, ognuno si arrangia come può. Ali è un privilegiato. Il padre è medico. Può andare al fronte sulla sua moto. Ma su quale fronte e agli ordini di chi? Non credo lo sappia neppure lui. Vedrà  sul posto. Gli ufficiali di Gheddafi, passati agli insorti, hanno cercato di raccogliere camion e altri mezzi, furgoni o trattori con rimorchio, per formare colonne in grado di trasportare decine, a volte centinaia di shabab. O sui quali montare mitragliatrici e batterie antiaeree recuperate nelle caserme abbandonate o conquistate. È raro imbattersi in quelle colonne, ma quando ti capita dubiti che le truppe trasportate possano affrontare un combattimento. Sugli schermi di Al Jazeera, la televisione araba (del Qatar) più seguita e apertamente in favore dell’insurrezione, i miliziani della Libia libera hanno facce grintose. Agitano i kalashnikov e cantano inni di guerra. Nella realtà , a contatto diretto, umano, il loro entusiasmo risulta autentico. Ma le grinte televisive diventano sorrisi. Di guerriglieri così accoglienti, disponibili, direi cordiali, non riesco a trovarne nella mia lunga memoria. E penso sia così, altrettanto candida e confusa la loro insurrezione. Senza rabbia apparente. Una rivoluzione elementare, semplice, senza sofisticazioni ideologiche. Con, almeno per ora, un unico obiettivo, sbarazzarsi della dittatura, schiodare Gheddafi dal potere, e conquistare una libertà  che assomiglia a quella diffusa dalle televisioni e dai siti web occidentali. Non si ricava altro dalle conversazioni con i responsabili o i semplici combattenti. Ma shabab sono anche ragazzi imberbi, armati di un bastone, che su una strada del deserto ti offrono un pezzo di pane o una tavoletta di cioccolato, se pensano che tu sia un profugo. Ci sono anche shabab che cercano di dirigere il traffico. Sto offrendo un’immagine candida della rivolta libica, che pure sa essere feroce. Pochi mercenari africani al servizio di Gheddafi, catturati dagli insorti, sono stati risparmiati. Ed è inutilmente che ho chiesto di vedere i prigionieri fatti dal 17 settembre in poi. Non è un buon segno. Il misto di generosità  e di spietatezza è tipico di molte insurrezioni. In quella libica c’è un elemento particolare. Il paesaggio politico è stato per quarant’anni un deserto. Ma quel che è rimasto vitale è il tessuto tribale. Durante il suo regno, anche nei momenti di popolarità , e certamente ce ne sono stati durante i primi vent’anni, Gheddafi si è destreggiato nel panorama tribale distribuendo i soldi del petrolio o reprimendo brutalmente. Comprando l’appoggio di clan e tribù o isolando quelli irriducibili. Ma negli anni successivi si sono inseriti nel mosaico delle tribù, nonostante l’isolamento, molti elementi della modernità . E il raìs è apparso vecchio, obsoleto, superato. Il giovane Ali, sulla Kawasaki e il kalashnikov a tracolla, e i suoi compagni, sono il prodotto di quel miscuglio: da un lato l’ospitalità  tribale e l’implicito senso della rivalità  che può essere spietato, crudele, dall’altro l’aspirazione a una libertà , a un’indipendenza individuale, alimentata dalle informazioni con sempre meno frontiere. Così il carattere tribale si è sposato con la modernità . Anche Jim Morrison è entrato a suo modo nella rivoluzione del deserto. Come il movimento occidentale dei diritti civili ha avuto Morrison, così l’insurrezione libica ha adesso Adil Mashaiti, un dottore di 37 anni, un tempo studente a Londra e poi ospite delle prigioni di Gheddafi, dove ha composto, ispirato appunto da Morrison, quello che può essere considerato un inno della rivoluzione. Con voce sommessa, sullo sfondo di grida e spari, Mashaiti canta: «Staremo qui fino a quando il nostro dolore sarà  sparito. Resteremo vivi cantando con amore. Nonostante tutte le vendette, arriveremo sulla vetta e ci rivolgeremo al paradiso. Staremo insieme con un balsamo e una penna». Era singolare ascoltare queste parole su una piazza di Bengasi dopo un mese di guerra civile. Di solito, quando Gheddafi appare su un televisore, esplodono grida come «a morte subito».

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