Ecco come cambia il «modello» cubano

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L’AVANA. Pedro si presenta subito come «uno dei fondatori del Minint», il Ministero degli interni. Ovvero, come un rivoluzionario della prima ora. Ha più di 60 anni, è in vista della pensione. Rivoluzionario e pensionando sono le caratteristiche che l’hanno inserito nella prima pattuglia dei 500.000 lavoratori che, entro l’aprile dell’anno prossimo, lasceranno il comodo – anche se poco remunerato – posto statale per mettersi in gioco come lavoratore por cuenta propria. Le sue credenziali lo hanno però favorito: si appresta ad essere uno dei parcheggiatori privati che gestiranno lo spiazzo antistante il mio residence, abitato da stranieri che pagano il parcheggio in moneta convertibile. Per Pedro, dunque, si prepara un atterraggio morbido nel mercato del lavoro che dovrà  essere creato a Cuba a iniziare da questo mese, in condizioni di urgenza ed emergenza. Così vuole la actualizacià³n del «modello (economico-sociale) cubano», varata a settembre dal presidente Raàºl Castro.
Dopo mesi di analisi e (duro) dibattito interno al partito-Stato, il Partito comunista, in sostanza il governo ha preso atto che i costi del welfare socialista (pieno impiego, mense operaie, tessera annonaria per 11 milioni di cubani, assistenza sanitaria e scuola – università  compresa – gratuite, ecc.) non erano più sostenibili. Nemmeno pagando salari che – per ammissione dello stesso Raàºl – non consentono di arrivare alla fine del mese (e che generano una serie di comportamenti ben poco socialisti). La decisione adottata è stata di iniziare un cambiamento di rotta – meno Stato e più privato – i cui esiti non sembrano essere ben chiari. O almeno non sono stati finora chiaramente definiti dai vertici politici. In sostanza, il governo ha deciso di tagliare mezzo milione di posti di lavoro nel settore statale, il 10% della manodopera impiegata nel settore pubblico (che controlla più dell’85% dell’economia del paese: i lavoratori del settore privato non superano i 600.000, la gran parte costituita da agricoltori che possiedono la terra lavorata).
Cooperative e licenze
Il piano adottato prevede di creare 200.000 posti di lavoro convertendo piccole imprese statali in cooperative gestite da ex-impiegati e altri 250.000 mediante la concessione di licenze per lavori por cuenta propria. Il quotidiano del Pc Granma ha pubblicato una lista di 178 «professioni» autorizzate per i privati, che vanno dal piccolo ristoratore – i gestori di paladar – all’idraulico, dal tassista al programmatore di matrimoni (e che comprende il «parqueador, cuidador de equipos automotores, ciclos y triciclos» in cui rientra Pedro). La quota rimanente di lavoratori «eccedenti» dovrebbe essere riorientata nel settore agricolo – definito «strategico», visto che Cuba importa quasi l’80% degli alimenti che consuma – e in quello delle costruzioni (dove sarà  abolito l’egualitarismo salariale). Infine, nuovi posti di lavoro dovrebbero essere creati nei settori del turismo (con l’occhio rivolto soprattutto a futuri viaggiatori Usa), delle biotecnologie e farmaceutico. Se la prima parte del piano, prevista entro la fine di aprile dell’anno prossimo, avrà  successo, si prevede che entro il 2013 circa 1.3 milioni di lavoratori oggi giudicati «in eccesso» – ovvero un lavoratore su cinque – saranno tagliati dal settore statale.
Se si tiene conto che attualmente i lavoratori privati registrati (esclusi gli agricoltori) sono 143.000 è possibile aver chiara la dimensione quasi titanica del cambiamento di rotta. Ma anche delle incognite che gravano sul processo messo in moto e che hanno suggerito di definirlo una «modernizzazione» e non una riforma del «modello socialista cubano».
La strada da percorrere infatti non è chiara: le future cooperative avranno problemi di finanziamento dalle banche (statali), di materie prime (lo Stato ha il monopolio dell’import e finora non sono stati aperti centri per grossisti) e di amministrazione (nessuno degli attuali impiegati ha idee chiare di come funzioni un mercato privato). Inoltre, parte dei lavoratori che chiederanno una licenza per un’attività  in proprio, in sostanza, continueranno nello stesso lavoro che oggi fanno in nero, con l’obbligo però di pagare le tasse (dal 40 al 15% , secondo il reddito) e i contributi per il programma di sicurezza sociale, ma con la possibilità  di assumere manodopera e di guadagnare secondo quanto producono. Infine, la fattibilità  del progetto è collegata anche all’apertura ai finanziamenti esteri, americani inclusi e interessati soprattutto, almeno in una prima fase, al settore del turismo.
Quello che invece è assolutamente chiaro nei programmi del vertice cubano è che le «modernizzazioni» non dovranno mettere in pericolo la natura socialista della rivoluzione, dunque nemmeno il ruolo del Partito comunista. Su questo tema, fuori di Cuba si sprecano ipotesi e analisi sulla trasformazione – o, per alcuni, la prossima fine – del fidelismo, ovvero delle scelte economiche, sociali e politiche volute da Fidel Castro, come la nazionalizzazione della quasi totalità  dell’economia cubana decisa alla fine degli anni ’60 del ‘900 e dunque una gestione estremamente verticale del potere. Come pure le previsioni di una propensione di Raàºl per modelli simili al cinese o al vietnamita (mercato e monopolio politico del partito unico). Nell’isola, il tema è affrontato dalla sparuta opposizione (che usa i canali come i blog, di limitatissimo accesso per il cittadino cubano); marginalmente in qualche articolo in un paio di riviste legate alla chiesa cattolica, che in questa fase ha acquistato un maggiore peso grazie alla mediazione del cardinale Jaime Ortega per la liberazione dei prigionieri di coscienza cubani; o in discussioni che si svolgono in circoli chiusi (i cui echi arrivano in internet). Nella sezione del venerdì del Granma, come nelle iniziative della rivista Temas e pure in alcuni interventi in trasmissioni radio e televisive, si esprimo soprattutto critiche alla gestione amministrativa (economica e sociale) del potere, con attacchi alla burocrazia statale, una sorta di nomenclatura alla cubana, che ha molte delle caratteristiche di quella degli ex-paesi socialisti dell’Est europeo.
Lo Stato da gestore a mediatore
Per questa ragione è molto difficile trovare chi è disposto a parlare con cognizione sull’argomento. E chi accetta, lo fa solo in modo informale, ovvero chiedendo l’anonimato. Quello che appare probabile, secondo quanto mi dice un economista impegnato nella discussione del nuovo piano, è che lo Stato debba progressivamente «passare dal ruolo di gestore a quello di mediatore». «Socialismo non vuol dire statalizzazione», afferma. Dunque, prosegue, lo Stato deve rinunciare al ruolo «paternalistico» fin qui svolto a scapito di un’autonomia della società  civile. «E’ la prima fase di un cambiamento del modo in cui la società  cubana si relaziona con lo Stato e con la politica in generale».
Un linguaggio involuto, ma relativamente facile da tradurre. Nei 51 anni della rivoluzione, a Cuba la «proprietà  sociale» si è realizzata come proprietà  statale, il che ha dato vita a una centralizzazione burocratica e a una gestione politica monopolizzata dal vertice del Pc. Nei prossimi mesi, decine di migliaia di cubani dovranno invece iniziare a cercarsi un lavoro, a procurarsi (legalmente) gli strumenti per tale lavoro, pagarsi il pranzo (venendo a mancare i comedores obreros) e a tenere una piccola (dipende dal lavoro) contabilità  perché dovranno iniziare a pagare le tasse. Insomma, la loro sopravvivenza e, nel migliore dei casi, mobilità  sociale non sarà  più affidata allo Stato o al partito, ma alla loro iniziativa. E dunque, probabilmente, si porranno il problema anche sul piano più squisitamente politico.
Con queste premesse è facile intuire che si apre un periodo di grande inquietudine: nei posti di lavoro sono iniziate riunioni per stabilire quale organico è il più adatto per operare con efficienza e risparmiando i costi. Efficienza e risparmio però significano qualcosa di radicalmente nuovo. Meno posti, più lavoro e responsabilità ; e incertezza di come questo si tradurrà , per chi resta, in un salario maggiore.
Un’ambulanza e 30 lavoratori
Un esempio concreto lo si può trarre esaminando la situazione del settore salute pubblica (che insieme all’ istruzione riceve più del 40% del budget statale). Il 10 ottobre, Granma ha pubblicato le dichiarazioni di Armando Marero, responsabile di tale settore nella provincia dell’Avana (a sud della capitale, che ha una propria amministrazione ) che comprende 38 policlinici, 25 Case della madre, 19 basi di ambulanze. Alcune delle Case della madre, afferma Marero, possono ospitare da 3 a 5 pazienti ma hanno un organico di 20 persone; alcune delle basi di ambulanze ospitano un solo veicolo, ma impiegano 30 lavoratori. Di qui la necessità  di «tagli e ricompattamenti» per realizzare i risparmi e l’efficienza necessari. Se si allarga la visuale a tutta l’isola, si ha la dimensione del problema.
Se la fattibilità  della «modernizzazione» che inizia in questi giorni solleva molte incertezze, grande è invece la novità  politica che ne è alla base, sia per la situazione interna all’isola, sia per le relazioni (strategiche) con gli Stati uniti. A differenza del passato, le preoccupazioni, i dubbi, il malcontento o solo il mugugno non sono più confinati entro le pareti di casa o affidate a espressioni di malumori sussurrate a qualche turista (per poi, magari, chiedergli un aiutino). Parlando con amici e conoscenti, ma anche sulla guagua – l’autobus – , il tema ricorre con frequenza quotidiana. Il livello è diverso: nell’ultima riunione organizzata dalla rivista Temas (il più noto spazio di dibattito non ortodosso) hanno parlato economisti e intellettuali; in un recente incontro con Alfredo Guevara, il noto cineasta e scrittore, un gruppo di studenti ha affrontato apertamente la questione della riforma; mentre la cosiddetta gente comune esprime soprattutto preoccupazione verso un futuro che non le è chiaro. Sindacato e Cdr (Comitati di difesa rivoluzionaria di quartiere) organizzano riunioni in tutta l’isola su come applicare la «modernizzazione». Ne parlano perfino i babalao, una sorta di prete della santeria cubana di origine africana, assai influenti nei settori più popolari.
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1,3 MILIONI Tanti sono i lavoratori statali giudicati «in eccesso» (un lavoratore cubano su 5) che, secondo il piano di riforme, dovranno essere «ricollocati»: 500 mila entro l’aprile 2011, gli altri entro il 2013

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Zitto zitto Obama sta (forse) ribaltando la politica di Bush
Ro. Li.
L’AVANA
Oservando da vicino la società  cubana in questa fase e parafrasando Galileo Galilei, si può dire che «eppur si muove». Un giornalista di lingua inglese mi assicura che questa è la sensazione che si ha anche nella Sezione di interessi (ambasciata) americana all’Avana. Rispondendo all’usuale tiritera sull’immobilità  arcaica del regime cubano, un diplomatico statunitense avrebbe tagliato corto: ma come, il governo cubano sta distribuendo la terra incolta, riducendo drasticamente gli impiegati statali, espandendo il settore privato autorizzando anche piccole imprese; ha iniziato un dialogo con la chiesa cattolica, commutato sentenze capitali e sta liberando i prigionieri politici. E, si potrebbe aggiungere, lo fa lanciando un messaggio di volontà  di «pacificazione politica» nei confronti degli Usa.
Un messaggio chiaro. Nei giorni scorsi, facendo seguito alle richieste dell’ex-ministro degli esteri spagnolo Moratinos, sia le Damas de blanco, sia Elizardo Sà¡nchez (familiari di detenuti politici le prime, leader della difesa dei diritti umani il secondo) hanno consegnato all’arcivescovado dell’Avana e a diplomatici europei due liste di quelli che, secondo loro, sono i prigionieri politici incarcerati a Cuba, oltre i 52 la cui liberazione è stata concordata con Raàºl lo scorso luglio (fino ad oggi 39 sono stati scarcerati). Sà¡nchez parla di 69 prigionieri politici, le Damas arrivano alla cifra di 113. Secondo Amnesty international, invece, una volta liberati i 52, resterebbe in galera un solo «prigioniero di coscienza», ovvero incarcerato per chiare ragioni politiche.
Il governo cubano, comunque, si è detto disposto a liberare tutti i «prigionieri politici» (formula non accettata dal potere) indicati dalla chiesa, anche quelli condannati per terrorismo (dirottamenti progettati o attuati di aerei o imbarcazioni verso gli Usa) con l’eccezione di quelli che sono stati coinvolti in fatti di sangue. E sta muovendosi in questa direzione: l’arcivescovado ha annunciato la prossima scarcerazione di 5 detenuti che non rientrano nelle lista dei 52 concordati lo scorso luglio (uno di loro condannato per fatti di terrorismo). Damas e Sà¡nchez si dicono convinti che Raàºl voglia sbarazzarsi di questo problema, proprio come segnale di appeasement da lanciare all’amministrazione Obama. Del resto la mediazione della Spagna e della chiesa cattolica (dietro al cardinale si muove la diplomazia vaticana) iniziata con lo stesso presidente Raàºl lo scorso luglio, sarebbe avvenuta – così si afferma in ambienti del Vaticano – con l’assenso americano. Il dipartimento di Stato avrebbe condiviso con Spagna e Vaticano la preoccupazione che un perdurante immobilismo a Cuba, in piena crisi economica, avrebbe potuto portare a forti tensioni sociali nell’isola. Gli Stati uniti, in particolare, temevano un secondo Mariel, ovvero che si ripetesse la fuga di decine di migliaia di cubani verso la Florida, come avvenne nel 1980 (in quel caso, autorizzata da Fidel).
L’amministrazione Obama, dunque, avrebbe scelto di ribaltare la politica verso Cuba praticata da George W. Bush (destabilizzare il potere dei Castro come misura per garantire la sicurezza interna Usa) decidendo appoggiare una (relativa ) stabilizzazione del governo cubano guidato da Raàºl proprio per evitare un pericoloso (per gli Stati uniti) processo di destabilizzazione a Cuba. Il dipartimento di Stato si sarebbe detto disposto ad appoggiare quelle forze che da mesi, negli Usa, cercano di far approvare un progetto di legge bipartisan per togliere le restrizioni previste dalla legge Helms-Burton sui viaggi a Cuba dei cittadini statunitensi, come pure sulle esportazioni verso la maggiore delle isole delle Antille. Il voto al Congresso Usa si presenta assai duro dato che i due schieramenti (favorevoli e contrari) praticamente si equivalgono. Ed è stato rimandato a dopo le elezioni di medio termine del 2 novembre.


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