Un calcio allo sfruttamento

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Si pensi: durante i mondiali del 2006 solo le entrate per Adidas sono aumentate di oltre 800 milioni di dollari, aumento di cui non hanno beneficiato i lavoratori e lavoratrici che producevano per quel marchio, ovviamente…
Secondo il Dipartimento del Commercio Usa e la Commissione usa per il commercio internazionale, la maggior parte dei palloni da calcio sono prodotti in Cina, Pakistan, India e Thailandia. Fino al 1990 era il Pakistan il più grande produttore del mondo (80% dei palloni cucini a mano). Poi è stato superato dalla Cina, grazie alle tecnologie nel processo produttivo, anche se è ancora il Pakistan a detenere il primato dell’alta qualità  del cucito a mano. Invertendo le posizioni però restano sfruttamento e violazione dei diritti. Una decina di anni fa il mondo intero rimaneva scioccato dalle notizie di bambini pakistani che cucivano quei palloni per sei centesimi l’ora. Passato lo shock, un nuovo rapporto («Mancato l’obiettivo per i lavoratori: la realtà  dei cucitori di palloni di calcio»), pubblicato dall’International Labor Rights Fund (Ilrf), che mette ancora una volta il dito nella piaga: restano intatti lo sfruttamento, i bassi salari, le discriminazioni di genere nei confronti delle lavoratrici a domicilio, pagate il minimo e a rischio costante di perdere il lavoro a causa della gravidanza. Nel 2008 la «PlayFairAlliance» («alleanza per il gioco corretto», che include Clean Clothes Campaign; Confederazione Sindacale internazionale; International Texile, Garment and Lether Workers Federation) pubblicava il rapporto «Vincere gli ostacoli» che, a poco più di tre mesi dalle Olimpiadi di Pechino, offriva uno spaccato sulle condizioni dei lavoratori impiegati presso i fornitori asiatici (Cina, India, Thailandia, Indonesia) delle grandi multinazionali degli articoli sportivi. Nulla è cambiato da allora. Oggi il lavoro minorile legato all’industria del pallone – denuncia il Labour rights fund – continua a esistere in Pakistan, soprattutto presso i lavoratori a domicilio. Nonostante dal 1990 gli attori del settore, tra cui la Fifa e i principali marchi globali, siano stati invitati all’azione il risultato finale è nelle rivelazioni dell’ennesimo rapporto. Le violazioni restano la norma, non l’eccezione. Circa il 75% degli oltre 200 lavoratori intervistati in Pakistan non avendo contratti a tempo indeterminato non ha accesso a prestazioni pensionistiche e alla.sicurezza sociale. Non solo. Niente acqua potabile e strutture di assistenza sanitaria e servizi igienici, come accade ad esempio nelle fabbriche di cucitura indiane.
«Scrivi una lettera alla Fifa ora» è l’appello lanciato dalla Clean clothes Campaign sul suo sito (www.cleanclothes.org, dove si può scaricare anche il rapporto), che invita a scrivere mail indirizzate al presidente della Federazione internazionale del carcio. «Come i fan di tutto il mondo hanno grandi aspettative verso i campionati mondiali», scrivono a conclusione della lettera, «i cittadini si aspettano  che l’industria del pallone dimostri concretamente di rispettare le sue promesse in materia di diritti umani».


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