Marchionne voleva il consenso di tutti adesso è tentato dalla soluzione polacca

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TORINO – Più che deluso Sergio Marchionne è preoccupato perché per la prima volta si rende conto che questo paese non è l’America dove gli accordi si fanno con tutte le organizzazioni sindacali e non soltanto perché lì sono meno che in Italia. Ora che la sua Fabbrica Italia è andata a cozzare contro il muro del veto della Fiom-Cgil deve correre ai ripari ed è assai probabile che l’incontro romano di oggi, al quale egli non parteciperà , non basti a trovare una via d’uscita. Il suo ultimatum, ribadito ancora qualche giorno fa, non ha funzionato ma l’alternativa dell’accordo separato non risolve il suo problema perché, se messo in atto, non chiuderebbe il capitolo della conflittualità  ma lo accentuerebbe.

«Il nostro obiettivo principale è quello di raggiungere un giusto livello di efficienza con il consenso di tutti»: l’ad del Lingotto lo ha ribadito più volte perché convinto di questo, ma non al punto da accettare un veto che minerebbe la «filosofia» del piano strategico presentato il 21 aprile scorso. Perciò negli ultimi due giorni ha preso in esame le alternative che in parte conducono al Piano B da lui enunciato ma sinora mai spiegato nei particolari. Tradotto in termini concreti voleva e vuole dire che o la Fiat viene messa in condizione di lavorare per raggiungere anche in Italia gli obiettivi che si è data oppure andrà  a farlo dove ciò sarà  possibile. Insomma una «deitalianizzazione» non voluta ma indotta.
Siamo a questa svolta? L’impressione che si ricava dagli umori del Lingotto è che questa sia per il momento un’ipotesi remota. Essa infatti comporterebbe difficoltà  pratiche di attuazione e avrebbe una ricaduta politica che vorrebbe dire molto di più che la fine della luna di miele tra Marchionne e i sindacati. Meno remota sarebbe una parziale attuazione del Piano B, ovvero il trasferimento all’estero dell’investimento da 700 milioni attualmente destinato a Pomigliano. Dove? In Fiat sono convinti che in fondo allestire in un qualche posto d’Europa una linea sulla quale produrre le 280 mila Panda trasferite dalla Polonia allo stabilimento campano non sarebbe poi così complicato. E non escludono l’ipotesi di un ritorno a Tichy.
Ma è questo un passo che Marchionne farà  non prima di avere cercato una soluzione italiana. Che però, dicono i suoi collaboratori, non può essere quella di una accordo condannato a essere messo ogni giorno in forse: cosa che accadrebbe dal momento che esso non obbligherebbe chi non lo ha firmato a rispettarlo. Ne questa prospettiva cambierebbe se si andasse a un referendum tra i lavoratori di Pomigliano dove su 5 mila dipendenti gli iscritti al sindacato sono il 63% di cui un 25 Fim, 25 Fismic, 22 Uilm, 17 Fiom e il resto sparso tra sigle minori. Resta dunque la strada dell’accordo a tutto tondo per assicurarsi il quale, secondo alcune voci, Marchionne dovrebbe fare qualche passo indietro sul diritto di sciopero e malattia. Lo farà ? Al momento la risposta è no. A meno che la posizione della Fiom non trovasse qualche sponda anche sul fronte Fim e Uilm, il che sembra improbabile. Ma c’è anche chi si spinge oltre il limite massimo del contenzioso attuale e mette in conto un’ipotesi secondo la quale il Lingotto potrebbe essere interessato a far saltare l’accordo, aggiungendo Pomigliano a Termini. E’ questo uno scenario che al Lingotto negano decisamente. Anche perché se prendesse corpo si porrebbero due problemi uno più delicato dell’altro: trovare un’attività  sostitutiva per Pomigliano ed evitare che tutto degeneri in un caso di ordine pubblico.


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