È cambiato il mondo, assieme al secolo. Con esso, il senso comune sul carcere e sulla pena si è decisamente indurito e si sono irrigidite le politiche che alla pena presiedono e della pena decidono. Non si sa se, in questo gioco di specchi, l’uno sia il riflesso delle altre o viceversa; però il risultato non cambia.
In quegli anni un grande cardinale, Carlo Maria Martini, scriveva: “Il cristiano non potrà mai giustificare il carcere, se non come momento di arresto di una grande violenza”. Oggi, troppo spesso, il carcere viene invece invocato a prescindere; panacea sociale e scorciatoia preferita, altro che extrema ratio! E gli effetti si vedono: un sovraffollamento delle celle giunto a livelli abnormi, il più alto d’Europa.
C’è rassegnazione diffusa mentre si assiste al degrado, fisico e civile. Non che le soluzioni siano a portata di mano: lo squasso odierno è il sedimento di decenni di errori, omissioni e disattenzioni. Si è infatti persa l’occasione dell’ultimo indulto che, grazie al ritrovato rapporto ottimale tra reclusi e operatori, avrebbe potuto consentire di mettere mano alle necessarie riforme strutturali. Ora, più di allora, quando venne sconfessato già il giorno dopo dagli stessi politici che lo avevano votato, ogni misura di clemenza pare improponibile. E non può che rendere tristi il fatto che una parola nobile e alta come questa sia diventata impronunciabile; del resto viviamo in un Paese nel quale da alte responsabilità di governo si è invitato, letteralmente, alla “cattiveria” verso i migranti. E sono proprio loro, gli stranieri e i marginali, e poi i tossicodipendenti, i senza fissa dimora, i malati di mente a gonfiare le celle. Ricordo sempre l’affermazione di un dirigente dell’amministrazione penitenziaria, fresco di nomina, intervenuto a un convegno del volontariato: “Mi aspettavo un carcere pieno di persone pericolose, ho trovato un carcere pieno di poveri”. È questa una verità che si fatica a sentire e ad accettare: la prigione è diventata un sostituto autoritario delle politiche di welfare, un deposito delle “vite a perdere” che non si vogliono e non si sanno più soccorrere e sostenere sul territorio.
Ma se la situazione è complessa e difficile, sicuramente non è il sovvertimento del vocabolario e del buon senso che può costituire una soluzione. Dopo aver superato da anni la “capienza regolamentare”, e nel 2009 anche quella definita “tollerabile” (che già suonava beffarda), ora si comincia a parlare di “capienza penitenziaria di necessità ”. Il 16 luglio 2009 la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per trattamenti inumani o degradanti, per aver costretto un detenuto a vivere in cella avendo disposizione soli 2,7 mq. Il nostro Paese è in Europa tra i più censurati, ma anche questo non sembra produrre risultati, e neppure potrà farlo il Piano carceri del governo, incentrato sulla nuova edilizia e sui poteri straordinari: entrambe misure assai demagogiche e molto poco adeguate.
In questo quadro desolato e desolante diventa impossibile garantire i regolamenti e i diritti minimi, da quello alla salute a quello alla stessa vita: crescono inesorabilmente i suicidi dei detenuti (72 nel 2009), ma spesso anche di agenti e operatori. In crisi è pure la funzione rieducativa, ridotta spesso a puro enunciato. E come potrebbe essere diversamente, al di là del generoso impegno di tanti (operatori penitenziari, volontari, cappellani), dato che solo l’1,3% di tutto il personale risulta impiegato in attività educative, la percentuale più bassa d’Europa?
Per quanto fondamentale, sarebbe però sbagliato voler delegare anche questa funzione interamente all’istituzione carceraria. Come si può, infatti, rieducare, chi non ha mai avuto opportunità educative? Vale a dire che anche fuori, anche prima, il territorio, la famiglia, la scuola, le agenzie educative devono fare – ed essere aiutati a fare – la propria parte. Perché la miglior difesa dal crimine rimane la prevenzione.
* Direttore associazione Società Informazione, curatore del Rapporto sui diritti globali
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