by Sergio Segio | 15 Giugno 2010 7:04
In Afghanistan il tesoro è sotto terra: rame, ferro, litio, cobalto, oro. Prendere tutto o abbandonare il Paese a se stesso, lasciando ad altri questo ben di dio? A distanza di un paio di giorni l’uno dall’altro, due articoli di segno opposto, apparsi sul New York times, disegnano un quadro del tutto nuovo su un Paese in guerra ormai da trent’anni. E se quello apparso ieri testimoniava dell’interesse per risorse che potrebbero valere un triliardo di dollari, un commento del premio Pulitzer ed editorialista del Nyt Bob Herbert di un paio di giorni fa, si intitolava: «Il coraggio di lasciare».
Se a pensare male non sempre si fa peccato, verrebbe da immaginare che il pezzo di ieri fosse la risposta al precedente. Perché restare in un paese dove, diceva Herbert – forse per la prima volta in modo così netto sulla stampa statunitense – la guerra è persa, i soldati muoiono, Karzai è incapace, il consenso crolla, le tasse e i contratti miliardari con le compagnie di contractor corrono? Perché, risponde a se stesso il quotidiano dopo tre giorni, c’è di che leccarsi i baffi.
Se al Nyt sia scoppiato un improvviso interesse per i minerali, se l’inchiesta fosse in cantiere, se qualche nuova evidenza ha suggerito l’articolo, non è dato sapere. La ricchezza mineraria è nota sin dai tempi dei sovietici ed evidenze nuove pare non ce ne siano. Ma, scrive il giornale, è pur vero che in Afghanistan c’è un tesoro sottostimato e valutabile in miliardi di miliardi.
Al New York times suggeriscono geologi e militari, soggetti che, ancora una volta, si occupano di materia che non è esattamente militare: un appunto del Pentagono citato dal giornale chiama l’Afghanistan «l’Arabia saudita del litio» e un funzionario anonimo dice che il Paese dell’Asia centrale è uno dei più importanti centri minerari del mondo. Un roseo futuro che potrebbe cambiare il corso della guerra. Anche in negativo, fornendo ai taleban – scrive il Nyt – un altro buon motivo per non mollare l’osso. Jalil Jumriany, del ministero delle miniere di Kabul, già parla dei giacimenti, presenti anche nel sud e nell’est del paese (le zone dove più si combatte) come della futura «spina dorsale dell’economia afghana».
In realtà il sottosuolo afgano gli appetiti li ha già scatenati. E a tavola per ora si sono seduti soprattutto i cinesi, col beneplacito degli americani. Degli affari di Pechino si sa poco anche perché la legge sullo sfruttamento, fresca fresca e varata con l’aiuto degli gnomi della World Bank, è piena di lacune. Lo sa bene un piccola ma tenace Ong afgana che, non a caso, si chiama «Integrity watch Afghanistan». Iwa ha pubblicato uno studio, più che sulla grande miniera di Anyak, considerato il secondo più grande deposito non sfruttato di rame al mondo, sulla trasparenza del processo di acquisizione dei diritti della «China metallurgical group». Che nel progetto metterà circa tre miliardi di dollari, il più importante investimento nella storia del Paese (dopo la guerra). Anyak potrebbe far salire l’Afghanistan nella top ten dei produttori posizionando Kabul tra i primi 15. Chi ci guadagnerà ?
Teoricamente, dice Iwa, a lungo termine l’investimento potrebbe fruttare al Paese qualcosa come la metà del budget statale (adesso di 12 mld), produrre 2400 posti di lavoro diretti e 6mila indiretti e avere un impatto positivo generale sul mercato locale. Ma tutto ciò è solo sulla carta, quella di un contratto che in realtà non è possibile visionare. Non è chiaro se il rame sarà o meno trasformato in Afghanistan e dove si prenderà l’energia per la produzione, problema che riguarda un ambiente a forte rischio di degrado. Infine le comunità locali sono al momento tagliate fuori dai processi decisionali. Il tesoro sotto c’è, ma chi ne godrà sopra è ancora tutto da capire.
Lettera22
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