by redazione | 7 Marzo 2007 0:00
Tra Helmand e Kandahar gli studenti di teologia hanno il controllo del territorio. E della raffinazione della droga. Una zona «off limits» in cui nemmeno le organizzazioni umanitarie possono mettere piede
(il manifesto, 7 marzo 2007)
Emanuele GiordanaDay Kundi, Nimroz, Uruzgan, Zabul. E naturalmente Helmand e Kandahar. Sono le province a rischio, quelle dove la miscela esplosiva viene fornita dalla guerra, per una parte, e dalla coltivazione dell’oppio dall’altra. Secondo gli ultimi dati dell’Onu nell’Uruzgan la produzione cresce. Resta stabile a Kandahar e nell’Helmand, ma proprio lì vivono pacifici i mediatori, le scorte armate per i mercanti internazionali e i responsabili delle raffinerie sorte come funghi negli ultimi anni. Sarebbero oltre 150 i laboratori attivi nel solo distretto di Sangeen. Provincia di Helmand, naturalmente.
E’ in questo perimetro di violenza, narcocolture, bombardamenti e attacchi armati talebani che si è mosso con una buona dose di fegato Daniele Mastrogiacomo. Un luogo lontano ormai da Dio e dagli uomini, abbandonato alle scorrerie talebane e alle missioni sempre più impossibili della Nato-Isaf, condotte per lo più con bombardieri contro un nemico invisibile la cui tattica, reiterata da mullah Dadullah, è il «mordi e fuggi». Pietro De Carli, della Cooperazione italiana, che vive da tempo a Kabul, spiega: «La notizia di Mastrogiacomo ci ha lasciato sconcertati. Purtroppo fare il giornalista in aree a rischio è difficile, specialmente in province come quella di Kandahar. Ci abbiamo operato anche noi tra il 2003 e il 2004, per poi abbandonarla per il crescente aggravamento delle condizioni di sicurezza. La stessa cosa abbiamo dovuto fare, negli anni successivi, appena finiti i progetti, nelle province di Khost, Paktya, Nangarhar e Badghis». Province lontane dunque anche dal braccio umanitario, la faccia buona del conflitto afgano.
Altrove la miscela che rende l’Helmand e il Kandahar le maggiori province a rischio è solo in fieri, come hanno appena dimostrato i fatti di Kapisa e del Nangarhar, zone del nordest dove, almeno nel Nangarhar e nel Kunar, la produzione di oppio è in crescita e dove centinaia di afgani hanno appena manifestato contro l’ultimo eccidio di civili, il «danno collaterale» di cui le forze della coalizione a guida americana si sono assunte la responsabilità e che ha prodotto un bilancio di almeno una ventina di morti in due giorni, assai di più secondo altre fonti.
Come che sia Helmand e Kandahar detengono la palma delle zone off limits. I due capoluoghi sono molto famosi. Kandahar, già capitale nell’antichità, era la città di mullah Omar, l’insegnante semicieco diventato amico di Osama e capo degli studenti coranici. Viveva, fino alla sua cacciata nel 2001, in un palazzo del centro davanti al sacrario in cui, così si diceva in città, era custodito un lembo della veste del profeta.
Lashkar Gah è invece il capoluogo di Helmand. La chiamano la capitale dell’oppio, un soprannome che racconta tutto. L’oppio è il perno su cui gira non solo l’economia afgana ma l’intero sistema di rapporti tra signori della guerra, latifondisti, talebani, mercanti internazionali. Da quando il luogo di raffinazione si è spostato dalla cintura tribale pashtun in Pakistan all’Afghanistan, il grande business è tutto qui. E si svolge in gran parte a Lashkar Gah, dove dal Belucistan arrivano i compratori a cui i talebani garantiscono le scorte armate. Una rete ormai consolidata.
Per la Nato e gli americani, attivi con quel che resta di Enduring Freedom, sono zone in cui la guerra mostra la corda. Si tentano offensive e si prendono, con fatica, città e distretti. Ma poi il controllo torna in mano ai talebani. A Musa Qala, dopo che i turbanti hanno ripreso di nuovo il distretto, lasciato dai britannici ad ottobre dopo un negoziato col potere tribale locale, la polizia se n’è andata. Anzi prima, dopo che i talebani hanno annunciato il ritorno. Uno stallo fradicio in attesa dell’offensiva di primavera che forse è già cominciata o non è mai smessa.
L’ultima bufera di neve a Kabul, raccontano, c’è stata un paio di giorni fa. «Poi – dice un cooperante – è rispuntato un sole caldo, primaverile. Se gli eventi che stanno accadendo sono in qualche modo collegabili all’offensiva di primavera, reclamizzata da entrambe le parti in conflitto, dovremmo prendere atto della puntualità con cui avviene. Augurandoci naturalmente che non sia così».
* Lettera22
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