Sinistra, l’abisso tra movimenti e rappresentanza politica

by redazione | 6 Marzo 2007 0:00

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«Il governo Prodi non è più in pericolo, ma sarebbe un grave errore continuare come se nulla fosse accaduto» «Bisogna riconoscere che tra governanti e movimenti c’è ormai un’incomunicabilità di logiche e di contenuti»

(il manifesto, 6 marzo 2007)

Marco Revelli


L’abbiamo tirato tutti, come negarlo?, un sospiro di sollievo quando al Senato, si è raggiunto il centosessantaduesimo voto. E Prodi si è risollevato. E Berlusconi si è afflosciato. E l’incubo di un passato che non trapassa si è dissolto. Bisognerebbe essere masochisti per non condividere queste emozioni. E tuttavia… E tuttavia succedono cose che fanno riflettere. E che sarebbe ingiusto non dichiarare, per lo meno come questione da discutere.
Succede, per esempio, che si discuta per anni di nonviolenza (senza se e senza ma) e di pace come valore non negoziabile, con tutti che plaudono compiaciuti e si congratulano tra loro per i buoni sentimenti condivisi, e poi alla prima occasione, al primo stormir di governo, eccoli tutti là, allineati e coperti (tranne un paio), a votare i crediti di guerra. A regalare qualche milione di metri quadri del nostro territorio per una base militare che persino il senatore Andreotti dice inutile, e incomprensibile. Ad approvare un riarmo che porta il bilancio della difesa a livelli record, e un investimento in cacciabombardieri nucleari di 13 miliardi di Euro, simboli evidenti della nonviolenza volata nell’alto dei cieli…
Succede anche che si disquisisca a lungo e abbondantemente di «democrazia partecipativa», inchinandosi al nuovo termine feticcio del giorno, quello che può far dimenticare le pratiche lobbistiche e i conflitti d’interesse, le «opus dei» e le massonerie, i «poteri forti» e quelli «occulti» dietro il mito della gente che prende la parola in pubblico e partecipa. Che si ripeta «mai più senza la gente», quando serve il lavacro legittimante delle primarie per ovviare alla debolezza del leader, salvo poi decidere, quando il gioco si fa duro e i duri incominciano a giocare, che l’ascolto di quelle aspettative e di quei valori, un po’ ingenui e impolitici, è roba da anime belle. Che la politica è ben altro, roba da esperti navigati. Da gente che sa sporcarsi le mani. E che i patti che contano non sono quelli stipulati con i propri elettori e i propri territori, ma quelli che legano tra loro, con ben altro vincolo, i membri della coalizione governante. I signori della decisione efficace.
Succede infine che si rifletta per decenni, per lo meno dal ’68 in poi – chi, in questa sinistra, non ha almeno un santino sessantottino? – sulle brutture dell’autoritarismo burocratico, degli apparati disciplinari di partito, sullo squallore dei processi interni, delle purghe e delle epurazioni per misurare il grado di «purezza» dei militanti (in cui, si diceva un tempo, ognuno troverà sempre un pur, plus pur, qui t’épure). Per poi, al primo tintinnar di speroni nelle aule parlamentari, far scattare il meccanismo inquisitorio dei Cc e delle Ccc (Commissioni centrali di controllo). Riproponendo, senza alcun senso storico dell’ironia, gli stessi epuratori che in un’altra era geologica epurarono altri eretici; impiegando gli stessi termini, e gli stessi argomenti, che meno di dieci anni fa, in occasione di un altro inciampo di Prodi, furono impiegati da altri contro di loro, mentre fuori dalle sedi istituzionali, dove il linguaggio resta relativamente sorvegliato, possono scatenarsi le mute di caccia, e ognuno – militanti provati e passanti per caso, professionisti della politica e nani e ballerine -, può scagliare la propria piccola pietra sui reprobi di turno per rigenerare la «comunità dei santi».
So benissimo che ci sono lunghe liste di buone ragioni, per affermare l’inevitabilità di tutto ciò. So che i partiti sono divinità esigenti, che pretendono di affermare il primato della propria dimensione collettiva sugli individui che ne fanno parte anche a costo di «sacrifici umani», in misura tanto più rigida quanto maggiore è la convinzione (non importa se fondata o meno) del proprio ruolo storico, e della propria funzione conflittuale. E che spesso, gli epurati potrebbero benissimo, in diverse circostanze, mutarsi in epuratori, condividendo in realtà la stessa idea del gruppo e dell’organizzazione di partito. So anche che qui la posta era alta: la minaccia del ritorno del «governo dei peggiori». La caduta di tante speranze e la vanificazione di tanti sforzi di chi ci aveva creduto. Ma resta il fatto che lo spettacolo è stato deprimente, dal punto di vista estetico – dello «stile», diciamo così – prima che politico. Che non si può, ragionevolmente, continuare a praticare platealmente la logica dei due pesi e due misure: santificare la «libertà di coscienza» quando riguarda un avversario che viola la disciplina del proprio campo e sanzionarla come diserzione quando si manifesta nel proprio. E, soprattutto, che non ci sono molte ragioni per essere compiaciuti.
Certo, sul piano della cronaca le cose sono finite bene. Berlusconi è rimasto nel suo angolo. Il pericolo immediato di una vendetta e di una rivincita della destra è scampato. Prodi ha guadagnato un po’ di tempo.
La prospettiva delle «larghe intese», che piace tanto ai piani alti dell’Unione, deve a sua volta ripiegare le ali. Ma sarebbe, io credo, un grave errore mettere tra parentesi queste settimane, come se nulla fosse successo. E le cose stessero più o meno come prima. Perché le cose non stanno affatto come prima. In quel mese o poco più, culminato col doppio voto in Senato, sull’asse che va da Vicenza a Roma passando per Bucarest, qualcosa si è rotto nel profondo del rapporto politico – nel nesso che si stabilisce tra società e politica -: qualcosa che investe alle radici la strategia della sinistra, in particolare della «sinistra radicale». Di quella componente del centro sinistra, cioè, che aveva affidato buona parte del proprio ruolo alla possibilità di «fare rappresentanza» di ciò che muove «in basso». Individuando la fonte della propria legittimazione nella necessità di trasferire le istanze, i valori, i bisogni espressi nel territorio e nel sociale al livello delle istituzioni politiche, nel cerchio magico in cui l’aspettativa sociale può trovare quell’efficacia che solo la politica può darle (per usare le categorie di recente esposte da Fausto Bertionotti).
Le dinamiche che hanno preceduto la crisi (l’editto di Bucarest, con la macchina dell’inquietudine e della paura, montata a oltranza da ministri, media, prefetti e questori, a disegnare lo scenario di Vicenza, proiettandoci dentro anche le ombre lunghe dell’inchiesta sulle nuove Br); e poi soprattutto il modo con cui la crisi è stata prodotta e gestita (con la drammatizzazione da parte di D’Alema del voto sulla propria relazione, il comportamento accorto dei senatori a vita, le defezioni sulla destra oscurate dal clamore su quelle a sinistra); fino a giungere alla conclusione attuale, ci dicono che il quadro politico è tanto impermeabile alle istanze che salgono dal basso, da rinunciare ai propri stessi equilibri, addirittura da «farsi saltare in aria», con tecnica kamikaze, pur di non lasciarsene attraversare. Che l’indisponibilità all’ascolto (quello vero, non la finzione tattica per meglio imporre le proprie decisioni) è tale che neppure un’eco, di quelle voci, può entrare nel palazzo.
I 12 punti che hanno siglato la pace istituzionale dentro la coalizione sono 12 chiodi ben lunghi piantati sul coperchio della cassa delle buone intenzioni di chi sperava di far filtrare in alto almeno brandelli di voci dei territori, che si tratti della Tav o delle ville palladiane, della domanda di pace o dei Cpt.
Cos’è stata, d’altra parte, questa crisi se non una gigantesca macchina simbolica e mediatica puntata contro tutte le istanze «particolari» che non nascono e non si esauriscono dentro il quadro di governo, unica forma del «generale» che questo ceto politico è disposto a riconoscere? E in conclusione, la conferma della deriva oligarchica che sta divorando la nostra democrazia (la democrazia occidentale, sia chiaro, non solo quella italiana).
Della forma che la governance assume nell’epoca della globalizzazione, in cui i rapporti «verticali» di rappresentanza tra governati e governanti devono, necessariamente, cedere alla forza cogente dei rapporti «orizzontali» di coalizione e di consociazione che vincolano tra loro i governanti dentro reti ampie, che travalicano i territori nazionali, li by-passano, sciolgono le responsabilità di mandato (con i propri cittadini) nelle più ampie solidarietà di ruolo (con i propri «pari grado»).
In questo quadro in cui il principio di rappresentanza è minato alla radice dalla crisi della «società di mezzo» (le grandi aggregazioni sociali del passato, il ruolo delle organizzazioni di massa e delle rappresentanze coese degli interessi) e finisce in buona misura per lasciarsi sostituire dalla pratica della rappresentazione (dello spettacolo politico-mediatico), la strategia di chi intendeva, per così dire, «servire il popolo» traducendone le istanze nell’arena istituzionale rischia non solo di dissolversi, ma di rovesciarsi nel proprio contrario. Non più risorsa per chi sta fuori e in basso, ma tendenziale fattore di minaccia. Non più mezzo per farsi valere, ma responsabilità cui sacrificarsi.
Se le istanze di chi crede nella pace come valore e non solo come tecnica di governo, nel rifiuto dell’uso della forza, nel rispetto del proprio territorio, nel valore della lentezza contrapposto alla velocità dominante, nell’importanza di un’economia della sobrietà contrapposta al mito dello sviluppo, sono così destabilizzanti che il solo nominarle nelle sedi governative suona come sabotaggio della stabilità politica, l’esistenza di propri rappresentanti (diretti o indiretti) nell’esecutivo diviene un fardello troppo pesante. Una responsabilità eccessiva, che finisce per attirare sulla testa di chi «in basso» pratica quei valori tutto il potenziale di aggressività e di competitività che caratterizza lo spazio politico centrale, favorendo quell’illusione ottica per cui, dopo la caduta di Prodi, chi lotta in valle Susa contro la Tav o a Vicenza contro la base, o a Venezia contro il Mose, finiva per vedersi attribuire l’intero peso della sconfitta dell’unico governo di centro-sinistra possibile, e del ritorno di Berlusconi…
Forse è venuto il momento di riconoscere che tra la logica «orizzontale» delle oligarchie governanti, e la logica altrettanto «orizzontale» dei cosiddetti movimenti (in realtà di quella galassia che condivide valori radicalmente antitetici al racconto sociale prevalente), esiste ormai un’incomunicabilità forte. Di logiche, oltre che di contenuti. Che i valori dei secondi sono, ormai, così universalmente radicali (si misurano con lo spazio-mondo e con le sue estreme contraddizioni) e proiettati nel futuro da non permettere se non momentanee e tattiche linee di tangenza con ciò che costituisce per gli altri l’unico universo politico concepibile, ferocemente vincolato al qui ed ora. Che quell’estremo brandello di cordone ombelicale sopravvissuto alla fine del Novecento che è la pratica della rappresentanza, non funziona più nel nuovo scenario globale. E che tutto, ma proprio tutto – a partire dalla possibilità di sopravvivenza della stessa «sinistra» – va ripensato in questa luce.
Un tema troppo importante, per lasciarlo solo ai politici. O per rinchiuderlo nella questione, pur rilevante, del destino di un governo.

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