Doveri, normalità e niente testimonial «Così abbiamo vinto in Svizzera»

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Dal primo gennaio è in vigore la legge sulle coppie gay, equiparate al matrimonio. Vietate solo le adozioni e la fecondazione assistita

(il manifesto, 7 marzo 2007)

Berna
Piazza Farnese come la Croisette. Attori e cantanti, comici e registi televisivi, premi Nobel e star dell’outing omosessuale sfileranno come sulla più famosa passerella di Cannes tra i mille volti anonimi che animeranno sabato la bella piazza romana. Una manifestazione indetta da tutto l’associazionismo omosessuale e a cui hanno già aderito decine di altre organizzazioni sindacali e politiche per spingere il parlamento a produrre al più presto una buona legge sulle unioni civili. E per mostrare alle «binetti» di turno che l’omosessualità è una «devianza» solo per chi tanto sano non è. Ma la campagna di sensibilizzazione scelta dal movimento omosessuale italiano, che usa i testimonial d’eccezione come elemento propulsivo, è agli antipodi di quella messa in atto in altri paesi europei per riuscire a superare lo scoglio delle destre e della Chiesa.
Fatte le dovute differenze, perché nessun paese è come l’Italia agli occhi del Vaticano, prendiamo ad esempio la Svizzera. Dove dal primo gennaio è in vigore la legge federale Lud, sulle «Unioni domestiche registrate per le coppie omosessuali» che equipara sostanzialmente le unioni di fatto al matrimonio. Unica eccezione il divieto di adozione di bambini e la fecondazione assistita. In due mesi si sono già unite 185 coppie, a fronte di 280 matrimoni celebrati. Per gli eterosessuali invece non è previsto alcun riconoscimento delle unioni civili anche se i tempi per il divorzio sono in Svizzera decisamente più brevi che da noi. «Abbiamo dovuto accontentarci di questa legge perché l’opposizione, capeggiata dai cattolici di destra dell’Unione Democratica Federale, non avrebbe mai accettato una sorta di matrimonio di serie B che, secondo loro, avrebbe distrutto la famiglia tradizionale», raccontano Pierre André Rosselet e Nicole Béguin, rispettivamente vicepresidente e copresidente delle associazioni gay Pink Cross e lesbica Los che hanno condotto tutta la campagna politica. Compresa quella per il referendum promosso dalla destra nel 2005 nella speranza di fermare la legge.
«Abbiamo discusso molto all’interno del movimento omosessuale e alla fine abbiamo scelto uno spirito pragmatico e non ideologico. Le parole d’ordine erano “normalità” e “dovere”. Tutta la nostra campagna è stata incentrata non sui diritti ma sui doveri, verso il proprio partner e verso lo Stato. Dovere di cura e di responsabilità, dovere di mantenere saldo il nucleo familiare, perché la coppia omosessuale è e vive all’interno della famiglia», spiegano Rosselet e Béguin. «Non abbiamo mai accettato testimonial d’eccezione, volti noti che rivelassero la propria omosessualità. I manifesti che abbiamo usato ritraevano coppie normali e stereotipate: due anziani signori valligiani, due donne al supermercato o in chiesa, due ragazze su un prato o due giovani mano nella mano. Abbiamo riproposto i classici valori, anche quelli cristiani: stabilità, seriosità, impegno. Il piacere per una volta lo abbiamo lasciato da parte. E ora il piacere è tutto nostro».


Eleonora Martini

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