Arriva a Mogadiscio la strada della guerra

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Somalia Le milizie islamiche lasciano anche la capitale

(il manifesto, 30 dicembre 2006)


Emilio Manfredi
Mogadiscio
Un gruppo di militari lavorano alla manutenzione di un elicottero da guerra Ma 35 Hind, di fabbricazione russa. Tutto intorno, una fittissima rete di sicurezza comunica in amarico, mentre il ministro degli esteri di Addis Abeba, Seyoum Mesfin, sale su un’auto e si allontana rapidamente. Sembrerebbe l’aeroporto militare di Debre Zeit, sede dell’aviazione d’Etiopia. Invece, è la pista d’atterraggio di Baidoa, Somalia. La sede del governo di transizione guidato dal presidente Abdullahi Yusuf.

Una cittadina polverosa non molto distante dal confine etio-somalo, conosciuta dalla seconda metà degli anni ’90 come «la città della morte». Infatti, nel 1997, le milizie del generale Aidid la sottoposero a un lungo e pesante assedio per strapparla a una fazione rivale. Dopo mesi, della città rimasero solo i ruderi. Così è ancora oggi. Una serie ininterrotta di case distrutte inframmezzate da baracchini e abitazioni più recenti. Tutto intorno, le retroguardie dell’armata etiopica che ha prima respinto e poi travolto i combattenti delle Corti islamiche.
Uscendo da Baidoa, in direzione Mogadiscio, le rovina grigie e fatiscenti di un palazzotto di architettura fascista: «Collegio di Baidoa». La scritta risalta ancora in mezzo al nulla di un primo pomeriggio assolato e caldissimo. Accanto, in una fogna a cielo aperto rimpinguata dalle recenti piogge, un gruppo di bambini ride e fa il bagno. Nudi, le ciabatte tra le mani a far da salvagente, sguazzano in mezzo all’acqua putrida. A osservarli, poco lontano, i miliziani del governo provvisorio, divise verdi senza insegne e kalashnikov poggiati svogliatamente a tracolla. L’esercito che sta riconquistando la Somalia dalla minaccia dell’integralismo islamico sembra piuttosto una delle tante milizie dei signori della guerra che hanno imperversato nel paese per 15 anni.
Uscire da Baidoa in direzione Mogadiscio significa iniziare un viaggio attraverso il principale fronte dei combattimenti dell’ultima settimana tra i guerriglieri islamisti e le truppe etiopi. La prima tappa è il posto di blocco di Bakhin dove, alcune settimane fa, la prima donna kamikaze velata della storia del Corno d’Africa si è fatta esplodere, uccidendo diverse persone. A lato della strada campeggiano ancora un paio di automobili bruciate nello scoppio, mentre gli uomini del Tfg controllano i documenti a un gruppo di somali che viaggiano a bordo dell’ennesimo, scalcinato, pullmino stracolmo di passeggeri. Passato il check-point si corre veloci verso Daynunay, dove c’è stato uno dei più pesanti combattimenti di questa strana guerra-lampo. Daynunay altro non è che un piccolissimo villaggio nella boscaglia, rinfoltita dalle fortissime precipitazioni degli ultimi mesi, che hanno messo in ginocchio una società già dissanguata. Decine di cammelli marciano mollemente in file disordinate, mentre un odore penetrante riempie le automobili di passaggio. Decine di cadaveri in decomposizione, mangiati lentamente dagli animali, aspettano che qualcuno si prenda la briga di dar loro sepoltura. Sono miliziani delle Corti islamiche uccisi dalla durissima risposta militare etiope. «Gli scontri sono iniziati in seguito ad un attacco degli islamisti, dopo la fine dell’ultimatum», racconta a Daynunay Mustafa Issak, commerciante di Baidoa. «Sono subito intervenute le truppe etiopiche, perché le truppe del governo provvisorio hanno subito gravissime perdite e avrebbero perso Baidoa in mezza giornata. Anche contro i soldati di Addis Abeba, i combattenti delle Corti non sono arretrati di un passo», continua l’uomo. «Nei primi due giorni di scontri, sono rimasti uccisi almeno 150 etiopi. Viste le difficoltà, sono intervenuti massicciamente gli elicotteri da guerra, e i jet», incalza Ahmed Hasan, 27 anni, che lavora per un ministero del Tfg. «A quel punto, i miliziani delle Corti hanno subito grosse perdite e hanno iniziato a ritirarsi alla rinfusa, anche perché da Mogadiscio non arrivavano più supporti logistici. I capi militari, infatti, stavano già preparando la loro fuga», conclude il giovane.
A Bur Aqaba, estrema roccaforte islamista sulla via della conquista totale della Somalia, la gente si raccoglie nella piazza, ancora attonita. Al margine del villaggio, un accampamento di militari etiopi sorveglia da lontano la situazione. La strada dissestata che prosegue verso la capitale pare abbandonata. Sporadici camion stipati all’inverosimile si dimenano tra le buche, frutto di anni di incuria e delle recenti inondazioni. Il sole tramonta dietro a un carro armato di Addis Abeba infilato di traverso sulla strada. L’unico check-point dell’esercito vincitore sull’intera rotta Baidoa-Mogadiscio. Poi scende il buio, mentre l’auto corre veloce nei 50 chilometri che la separano da Lego. È una regione abitata dal clan galgel, indomabili pastori seminomadi che spesso attaccano i convogli in transito a scopo di rapina. Oltre Lego, si vedono chiari i segni delle recenti esondazioni del fiume Shabelle. Fino ad Afguye, l’oscurità della notte è interrotta soltanto, a intervalli, da bambini che guidano mandrie di vacche rinsecchite e moribonde.
Uscendo dal centro abitato, 30 chilometri prima di Mogadiscio, veicoli blindati con scritte in amarico controllano discretamente la strada, devastata da buche profonde. Poi, dopo una mezz’ora di nulla, la capitale. Si entra da sud, passando accanto alla Lafole University. Per le strade, pochissime persone. Solo qualche candela a illuminare pochi suq ancora aperti. Accampati nella boscaglia, centinaia di soldati etiopici già controllano la capitale. «E’ l’Etiopia che controlla il porto, l’aeroporto e i principali svincoli in città», racconta il colonnello Fod, poliziotto in pensione, seduto nel cortile del Sahafi Hotel. «I grandi capi delle Corti se la sono data a gambe. Quelli erano matti, troppo duri. Ora il primo ministro Ali Ghedi è in città, al Global hotel. Assieme ad alcuni signori della guerra», spiega in italiano. Intorno a lui, un piccolo gruppo di persone annuisce. Molti di loro, non più di un mese fa, nello stesso luogo, raccontavano la tranquillità della vita al tempo delle Corti islamiche. Il tempo, a volte, fa miracoli. Il potere militare, ancora di più. Chiunque lo eserciti.

Due anni fa le milizie delle Corti islamiche lo avevano confinato a Baidoa, ieri il primo ministro Ghedi è tornato nella capitale al termine di una strana guerra-lampo. Sulla sua strada carcasse di camion, cadaveri, resti di autobombe. E truppe dell’Etiopia

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