L`Italia del lavoro

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Un’indagine dell’IRES mostra i nuovi volti del lavoro

Ires / L’indagine per il centenario Cgil L’Italia del lavoro tra presente e futuro a cura di Giovanni Rispoli Sulle trasformazioni intervenute nel mondo del lavoro in questi anni esiste ormai una produzione vastissima. Ma, come del resto sempre è stato, gli studi che davvero hanno aperto una strada diversa e originale non sono poi tanti. Tra questi si potrà benissimo enumerare, crediamo, la ricerca – “L’Italia del lavoro oggi. Condizioni e aspettative dei lavoratori”, realizzata in coincidenza con il centenario della Cgil, – che l’Ires Cgil ha presentato a Roma il 5 settembre, in Corso d’Italia. L’indagine, curata da Giovanna Altieri, Mimmo Carrieri e Agostino Megale, che ha impegnato non solo l’istituto nazionale ma anche gli Ires regionali e alcune strutture della confederazione – una serie di report sulle diverse regioni usciranno non a caso nei prossimi mesi –, e che si è avvalsa della consulenza di Aris Accornero e Bruno Trentin, rappresenta infatti, sotto diversi profili, una novità assoluta. Per i contenuti che esprime, certo, ma anche per l’ambizione che la anima.

Erano molti anni che un’indagine di questo genere – finalizzata cioè a fotografare l’intero mondo del lavoro – non appariva. La si è realizzata attraverso seimila interviste face to face – 6015, per l’esattezza – cui si sono aggiunte 1200 interviste telefoniche fatte dall’Swg di Trieste – con l’obiettivo di offrire un quadro non solo delle condizioni ma anche delle aspettative dei lavoratori dipendenti, sia dei cosiddetti garantiti – che delle proprie garanzie, come si vedrà, non sono più tanto sicuri – che dei lavoratori precari, il frastagliato universo fatto di collaborazioni a progetto, occasionali, lavoro in somministrazione, in cui si muove essenzialmente il lavoro giovanile. L’ambizione quindi, è stata quella di costruire una rappresentazione esauriente dei cambiamenti in corso nel mondo del lavoro. Ma anche, sottolinea il presidente dell’Ires Agostino Megale, di dotare la Cgil di uno strumento che le permetta di fare meglio il mestiere, classicamente inteso, del sindacato: contrattare le condizioni di lavoro.

Di seguito, dunque, una sintesi dei primi risultati dell’indagine.

Rapporti e percorsi di lavoro. La fine della “carriera unica”
Il tema dei rapporti e percorsi di lavoro è trattato, così come le altre materie, in maniera meticolosa. E, sempre così come per gli altri capitoli, ci soffermeremo qui, per ragioni di spazio, solo su alcuni punti. Detto della composizione del campione prescelto, di come esso rifletta le diverse tipologie di rapporto di lavoro presenti nel paese – quindi dei pesi relativi del lavoro standard e non standard per sesso, settore, ripartizione territoriale e così via –, la ricerca mette in luce innanzitutto un dato: il tramonto – ovviamente s i tratta di un processo –, soprattutto per le nuove generazioni di lavoratori, della “carriera unica”. Tra i più giovani si registra una maggiore mobilità (“o instabilità?”, si chiedono all’Ires) tra un’occupazione e l’altra. I più anziani, invece, si contraddistinguono per una maggiore staticità (“o stabilità?”) lavorativa .

Le competenze. Ovvero come si sprecano le risorse
Quanto viene valorizzato il capitale umano nello svolgimento del proprio lavoro? Le risposte degli intervistati dicono di una relativa scarsa coerenza dei percorsi. La discrasia tra iter formativo e percorso lavorativo significa spreco di risorse. Un problema non solo per sé ma per il sistema paese.

Gli orari. Il tempo per l’azienda e il tempo per sé
Si è parlato da più parti del minore impegno lavorativo degli italiani rispetto a quanto accade negli altri paesi europei. L’indagine mostra però che oltre il 60% dei lavoratori dipendenti lavora di fatto oltre le 40 ore e ben il 22% supera le 45 ore settimanali. Ancora, il 73% dei lavoratori impegnati nel settore privato dell’economia lavora in media dalle 40 ore in su. Nel pubblico la maggioranza (55%) effettua invece un orario lavorativo compreso tra le 24 e le 36 ore. In tema di preferenze (flessibilità nell’orario di entrata e di uscita, part time orizzontale e verticale, recuperi compensativi) le risposte di uomini e donne differiscono (interessante fra l’altro, a smentire un luogo comune, la scarsa disponibilità delle lavoratrici al telelavoro). Il giudizio diviene uniforme quando si passa agli straordinari: soltanto il 17% – sia degli uomini che delle donne – “preferirebbe che non ci fosse”, mentre il 54,5% degli uomini e il 48% delle donne desidererebbe che fossero meglio retribuito.

Salari e condizioni materiali. L’incubo del fine mese
In tema di salario e condizioni materiali è bene dire subito di un fatto ormai risaputo ma non per questo meno allarmante: la maggioranza dei lavoratori non ce la fa ad arrivare alla fine del mese. I numeri parlano chiaro: il 68,6% degli intervistati ha un guadagno netto mensile che non supera i 1300 euro; il 14,8% va da 1300 a 1500 euro, solo una ristretta minoranza (il 16,6%) può disporre di un guadagno netto superiore ai 1500 euro. Le donne continuano a guadagnare meno degli uomini: a parità di orario di lavoro svolto, infatti, rimane un significativo differenziale tra i salari maschili e quelli femminili. La maggior parte dei lavoratori (il 57,7%) dichiara di riuscire a stento, se non per niente, a garantire condizioni decenti per sé e la propria famiglia; condizione che tra i lavoratori non standard riguarda quasi il 70% dei casi. Sono soprattutto i giovani ad avere le maggiori difficoltà, com’è immaginabile.

Le aspettative. Tra salario e stabilità lavorativa
A fronte delle condizioni che abbiamo visto sopra non c’è da stupirsi se la maggior parte dei lavoratori (circa il 40%), interrogati sulle aspettative, speri semplicemente di guadagnare di più; anche se una componente comunque alta (circa il 30%) vorrebbe un domani più sicuro e il 24% una maggiore gratificazione professionale. Se i più adulti puntano a salari migliori, per i più giovani il futuro vuol dire soprattutto stabilità lavorativa. Andamenti opposti, riconducibili alla condizione contrattuale – precaria e instabile – che caratterizza le esperienze di lavoro giovanili. Passando al gradimento per il proprio lavoro, poi, sono soprattutto coloro i quali percepiscono salari migliori e i più anziani a manifestare maggiore soddisfazione. Ciò non toglie che lo stesso sentimento si possa ritrovare in gruppi che non sono per niente soddisfatti. È il caso degli insegnanti e di molte professionalità elevate. Ma quale giudizio esprimono poi i lavoratori in tema di sicurezza del posto di lavoro? Dalla ricerca emerge innanzitutto un legame significativo tra l’età e la percezione relativa alla stabilità del posto di lavoro. Sono i più anziani e i più qualificati e/o istruiti a mostrare maggiore sicurezza; l’ansia per il futuro lavorativo riguarda invece in prevalenza i più giovani, che nel 45% dei casi ritiene il posto di lavoro appunto insicuro, e i meno istruiti.

La buona flessibilità
La flessibilità del lavoro è giudicata positivamente da circa il 43% degli intervistati, per le opportunità che può offrire se accompagnata da diritti e tutele. Una percentuale altrettanto significativa (il 41%) la considera come fonte di ansia e insicurezza e un limite alla progettualità della vita. Un altro 16% la valuta positivamente, ma soltanto per la fase d’ingresso nel mondo del lavoro. L’associazione tra flessibilità del lavoro e impossibilità di formulare progetti è assai più diffusa tra gli operai e, in generale, nei gruppi professionali dotati di minori competenze e che lavorano in settori dove la flessibilità spesso significa precarietà. Al contrario, sono le categorie più dotate di risorse proprie a vederne le potenzialità positive. Lo stesso si può dire dei giovani, più propensi ad attribuire un valore positivo alla flessibilità ma a condizione che sia transitoria e tutelata.

La pensione che preoccupa
Quali sono in generale le questioni su cui si concentrano maggiormente le preoccupazioni dei lavoratori? Un tema decisivo è il trattamento pensionistico. Circa il 30% degli intervistati avverte come prioritario il fatto che non potrà contare su una pensione adeguata. In ansia sono soprattutto i lavoratori più avanti negli anni e quelli del settore pubblico. La maggior parte degli intervistati (il 46,3%) è, però, assillata dalla paura di non avere una continuità lavorativa e di reddito, o di perdere il proprio lavoro; il 19,6 teme di non riuscire a mantenere l’attuale tenore di vita, e il 4,2 di non tenere il passo con la propria professione. Dunque, osservano all’Ires, i valori professionali sembrano trovare poco spazio di fronte all’assillo rappresentato dall’insicurezza e dalla paura di non riuscire a fronteggiare le esigenze quotidiane. L’ansia per il futuro attraversa trasversalmente le molteplici facce del lavoro e tocca tocca anche i lavoratori stabili.

Paura di tornare indietro
I lavoratori dipendenti italiani, peraltro, appaiono “relativamente” pessimisti circa il proprio futuro: quasi il 60% degli intervistati, infatti, pensa che la propria condizione rimarrà uguale o peggiorerà rispetto a quella dei genitori. Tra quanti hanno una visione “decisamente” pessimista prevalgono gli atipici, che nel 40% dei casi (contro il 31,2 della media del campione) paventano un arretramento rispetto alla famiglia di origine. Questi ultimi sono soprattutto adulti giovani (trentenni-quarantenni), per i quali la prospettiva di un’ascesa sociale è più bassa rispetto alle generazioni precedenti. Per il passato recente, infatti, la percezione degli intervistati rivela un fenomeno di tendenziale mobilità sociale ascendente, cioè uno spostamento dei lavoratori verso le posizioni immediatamente superiori della scala sociale in rapporto alla collocazione della famiglia d’origine.

La contrattazione. Gli incentivi individuali? Sì, ma negoziati
La contrattazione integrativa è diffusa nella maggioranza delle unità produttive in cui lavorano gli intervistati (46,8% contro il 37,5 delle realtà nelle quali invece mancano accordi decentrati). Di grande interesse, fra le altre, le valutazioni sui incentivi retributivi attribuiti ad personam. La maggioranza li apprezza, ma una quota significativa richiede una maggiore trasparenza, da conseguire mediante lo strumento della contrattazione collettiva.

L’adesione ai sindacati. Centralità della tutela
Il campione sondato presenta una quota di sindacalizzati in linea con le stime ufficiali sugli iscritti. L’insieme degli aderenti ai sindacati, confederali e non, supera il 40%. Il dato più interessante è che solo poco più di un quarto del campione dichiara di non essere iscritto ad alcun sindacato e che non intende farlo, in quanto un altro 15% circa si dice non iscritto, ma nello stesso tempo pensa all’adesione. Un fatto che conferma l’ampiezza del bacino organizzativo, anche potenziale, del sindacalismo italiano. Il grosso dei motivi di adesione si addensa intorno alle condizioni di lavoro e alla tutela nei luoghi di lavoro e in azienda: sommando varie voci queste ragioni pragmatiche superano il 40% delle risposte (come primo motivo). Decisamente minoritaria la presenza di coloro che dichiarano ragione esclusiva di iscrizione quella legata all’utilizzo dei servizi di assistenza. Su questo punto, si sa, si discute da tempo, e non mancano i sostenitori del canale dei servizi come strada maestra per incentivare le adesioni. I dati della ricerca smentiscono questa convinzione.

Più collaborativi
Agli intervistati sono state rivolte anche domande tese a verificare aspettative verso problemi di carattere più generale. Dalle risposte a una prima domanda sul sindacato e cosa da esso si vorrebbe emerge in maniera forte la richiesta di maggiore unità e, in seconda battuta, di un’estensione dell’impegno contrattuale (opzione, questa, preferita soprattutto da giovani, donne e lavoratori non standard). Quanto all’atteggiamento del sindacato nei confronti dei grandi schieramenti politici l’opzione vincente (64% circa) è quella di una rigorosa autonomia (“non schierarsi con nessuno”). Le opinioni degli intervistati sono state richieste anche intorno al nodo della collaborazione tra lavoratori e datori di lavoro. Confrontate con una domanda effettuata nell’inchiesta – diretta da Accornero – condotta dal Cespe alla Fiat nel 1980 (per ragioni di spazio tra i grafici di pag. 13 non abbiamo potuto pubblicare i dati di raffronto), emerge un netto salto in avanti dell’opzione cooperativa, che già nell’80 disponeva della maggioranza relativa, e che oggi raggiunge la maggioranza assoluta. La conseguenza, commentano i ricercatori, è che si apre uno spazio, tutto da riempire, per politiche orientate verso la partecipazione e la democrazia industriale. Infine il futuro del welfare. In questo caso emergono due istanze. La prima è una richiesta di estensione delle tutele sociali ai soggetti meno protetti. La seconda – che non è contraddittoria con la precedente – si traduce invece nella richiesta di misure di adattamento dello Stato sociale all’invecchiamento della popolazione.


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