Lavoro e sicurezza

by redazione | 25 Luglio 2006 0:00

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Intervista a Giovanni Berlinguer

Lavoro e sicurezza / Intervista a Giovanni Berlinguer

Torniamo a indignarci

di Diego Alhaique

Negli anni Sessanta e Settanta l’Italia è stato il paese che ha avuto la stagione più ricca di lotte sindacali e di sostegno popolare, ma anche di mobilitazione dei sindaci, per garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori, con la parola d’ordine: la salute non si vende”. Giovanni Berlinguer, oggi parlamentare europeo, è stato protagonista , dal punto di vista politico e scientifico, di quelle lotte che – ci tiene a ricordare – “espressero grandi personalità, come Gastone Marri, il fondatore del Centro ricerche documentazione rischi e danni da lavoro, recentemente scomparso”. “Un momento fondamentale – racconta ancora Berlinguer – si ebbe nel 1971, con la pubblicazione della dispensa sindacale L’Ambiente di Lavoro, che diventò nota in tutto il mondo come il “modello operaio italiano”. In quel testo il lavoratore veniva posto come persona e come gruppo al centro della prevenzione. E diventava così il protagonista del miglioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche e nelle campagne”.

Quella spinta si è però attenuata, in una certa misura si è tornati a monetizzare il rischio o, in molti casi, più semplicemente a trascurarlo. È prima di tutto un tracollo culturale. Cosa è accaduto, professore? Cosa si può fare per ridare attualità alle lotte per la sicurezza del lavoro?

Berlinguer C’è stata dagli anni Ottanta la “stagione dei regolamenti”, che ha sostituito quella “dei movimenti”, delle lotte e delle conquiste. Ad esempio, il famoso decreto 626 e altri strumenti dell’Ue riguardanti singole lavorazioni, rischi specifici ecc., hanno introdotto giustamente un sistema di regole per le aziende ma forse hanno fatto perdere l’anima alla lotta per la prevenzione. Per le aziende il decreto ha significato più un modo di porsi in regola, al riparo da sanzioni, anche con molti vantaggi, che non il seguire e il prevenire la condizione reale della produzione e lo stato di salute e di sicurezza delle singole persone. Queste leggi, cioè, sono valse più a prevenire i guai aziendali che non le malattie, e forse bisogna ritornare su questo strumento per renderlo più partecipativo, in base ad esperienze in corso nelle fabbriche, dove c’è l’interesse ad una presenza diretta dei lavoratori.

Pochi giorni fa l’Inail ha comunicato che il numero degli infortuni dei primi mesi di quest’anno tende nuovamente alla crescita. Quali pensi ne siano le ragioni e quali fattori più rilevanti da affrontare?

Berlinguer La preoccupazione attuale è che, malgrado l’ulteriore l’alleggerimento dei rischi portato dalle nuove tecnologie, c’è una tendenza alla stagnazione o all’aumento degli infortuni, per ragioni diverse che sono attinenti ai rapporti di lavoro più che ai materiali e alle tecniche. Mi riferisco ovviamente alla generalizzazione degli appalti ai subappalti, che tolgono la responsabilità al soggetto contraente delle attività produttive, al lavoro in nero, al lavoro clandestino, al lavoro dei minori, al lavoro precario. Su questi aspetti strutturali non c’è stata negli ultimi dieci anni un’iniziativa sufficiente da parte del Governo e da parte delle Amministrazioni Locali, mentre bisogna intervenire con una legislazione innovativa che responsabilizzi i soggetti: a partire dalla messa in regola di quei trecentomila lavoratori che non sono entrati nella sanatoria dell’anno scorso, e che a volte hanno pagato i datori di lavoro per essere assunti, capovolgendo ogni moralità dell’avvio di un rapporto di collaborazione retribuita. E’ un fatto che indigna, che umilia in modo spaventoso, è la storia rovesciata.

Vedi dunque dei rischi anche dal punto di vista dei valori?

Berlinguer Alla base di quello che accade vedo un deprezzamento diffuso del valore del lavoro, nelle politiche, nei comportamenti e perfino nel linguaggio. So che in Francia per esempio c’è molto sdegno per il fatto che il ministero del Lavoro ha cambiato nome: si chiama ministero dell’Emploi, dell’impiego. Ora, lavoro è una parola ricca di autonomia, creatività, che ha perfino un valore antropologico perché è con il lavoro che la nostra specie è cresciuta e si è diversificata. La parola impiego ha come sinonimo “uso”, che è un concetto strumentale.

E sotto il profilo scientifico?

Berlinguer Non si devono isolare gli infortuni dalle malattie e, soprattutto, da un fenomeno molto più grave e diffuso: cioè il fatto che la speranza di vita di chi lavora è direttamente proporzionale al grado di istruzione, di gratificazione, di reddito, di riconoscimento sociale che hanno le varie categorie. A partire dal livello più basso che è la manovalanza non qualificata, fino al grado più alto che sono i professionisti e i dirigenti. In Europa la differenza tra la speranza di vita bassa e quella più alta arriva fino a dieci anni di vita. Questo è dovuto a un insieme di condizioni, quelle che adesso l’Organizzazione mondiale della Sanità ha finalmente definito come “determinanti sociali della salute”, cioè causa delle cause di malattia, che non sono solo quelle specifiche.

Quale potrebbe essere un nuovo segno di risposta da parte della comunità?

Berlinguer Quando ho sentito lo sdegno e l’invito ad agire di Giorgio Napolitano, ho pensato che sarebbe straordinario se si muovessero nella stessa direzione gli oltre ottomila sindaci e gli altri amministratori locali, perché è vero che bisogna formulare un pacchetto per la sicurezza – così come ha proposto giustamente il Ministro del Lavoro Cesare Damiano -, ma è anche vero che la tutela del lavoro deve essere molto capillare, perché le leggi e gli ispettori non possono raggiungere tutti.

(www.rassegna.it[1], il Mese di Rassegna sindacale, luglio 2006)

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