Quel popolo in Cina che muore di Aids

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(da La Repubblica, VENERDÌ, 05 MAGGIO 2006, Pagina 1 – Prima Pagina)

REPORTAGE

Quel popolo in Cina che muore di Aids
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dal nostro inviato

FEDERICO RAMPINI

xichang (Sichuan)
Per arrivare a Jiudu ci si inerpica in jeep su na strada sterrata in mezzo alle risaie, il villaggio ti accoglie con due canali di liquame che sono fogne a cielo aperto, i maiali e i cani ci sguazzano dentro insieme a bambini seminudi con gli occhi rossi e la pelle rovinata dalle malattie. Tra questi c´è Saza Jiji. A dieci anni deve già fare da mamma per il fratellino Sela di sei, perché sono rimasti soli al mondo. Se lo abbraccia stretto, con la sua giacchetta rossa sporca di terra, le scarpe da tennis bucate. «Prima è morta la mamma e papà ha riportato a casa le sue ossa per il funerale, poi è morto anche lui e le ossa le ha portate un amico. Ho una sorella maggiore ma l´anno scorso è partita, ha detto che andava a raccogliere il cotone, non so più niente di lei». La stagione del cotone è finita da un pezzo, la sorella grande rischia di aver seguito la stessa strada dei genitori. Ora è Saza la padrona di casa: una casupola dalle mura di fango in stato di abbandono, con il tetto di legno sfasciato, qualche attrezzo agricolo e una pentola che arrugginiscono in un angolo. La luce e l´acqua corrente non ci sono mai state.
Da questa punta meridionale dello Sichuan, in un luogo che non viene segnato sulle mappe geografiche, la Cina prepara la sua conquista della luna: nelle vicinanze di Xichang l´Esercito di Liberazione Popolare ha una delle più importanti basi missilistiche, sia per i lanci militari che per il programma spaziale. Qui vicino su un affluente del fiume Yangtze è iniziata anche la costruzione della seconda diga più grande del mondo, dopo quella delle Tre Gole, per alimentare una megacentrale idroelettrica. La base missilistica non è l´unica ragione per cui il governo di Pechino non ama che si venga a curiosare nella zona.
A quasi duemila metri di altitudine, in un bel paesaggio di montagne laghi e foreste, si nasconde un segreto terribile. In questi villaggi abitati da un´antica minoranza etnica si vedono solo vecchi e bambini, è uno strano mondo dove vagano nonni sdentati e branchi di nipotini smarriti; è invisibile la generazione di mezzo. I giovani adulti sono stati decimati dall´Aids. Con loro sta scomparendo un popolo di tradizioni millenarie, che ha una lingua e un alfabeto del XIII secolo e bellissimi costumi – ancora oggi alle fiere paesane di Xicheng le donne scendono a valle indossando eleganti mantelle dalle ampie spalle quadrate, gonne dai ricami elaborati, alti cappelli neri fasciati di sciarpe colorate. I cinesi li hanno sempre chiamati gli Yi, un termine spregiativo perché all´origine voleva dire «alieni». Loro invece si chiamano Norsu. All´origine venivano dai confini del Tibet. Ne sono rimasti sei milioni e mezzo, di cui due milioni in questa vasta regione montagnosa dello Sichuan.
Stritolati da uno sviluppo economico che li ha resi solo più fragili e indifesi, emarginati e disprezzati dagli Han (l´etnìa cinese dominante), i Norsu sono stati condannati quando l´economia di mercato ha portato fin qui l´eroina dal «triangolo d´oro» della penisola indocinese. Genocidio o suicidio di massa, non si sa come definire questa strage: in pochi anni il 50 per cento della popolazione adulta è diventata tossicodipendente, tra loro la maggioranza è sieropositiva, in alcuni villaggi la popolazione di orfani raggiunge il 60 per cento. Pochi vanno a scuola perché la retta costa sette euro al mese. Il reddito pro capite non raggiunge i cento euro all´anno.
Cheguo Chihe è un´altra piccola orfana, coetanea e amica prediletta di Saza. Lei non ha fratelli. Appena incontra un adulto, anche straniero, gli afferra la mano la stringe forte e non la lascia più. Al collo porta appesa una corda con la sua unica proprietà, la chiave del lucchetto dell´uscio di casa.
Un´altra casa di fantasmi. «Mio padre è morto sei anni fa perché prendeva la droga, mia madre è scomparsa, non so dove. Ho uno zio ma anche lui prende la droga, è molto malato. Lui e la zia non sono a casa, forse sono andati all´ospedale, non so quando torneranno». Cheguo stasera mangerà solo se qualche vicino di casa impietosito le fa l´elemosina di una patata bollita o una ciotola di semola di mais. I superstiti dei Norsu cercano di aiutare questi orfani, al prezzo di sacrifici enormi. Le famiglie di contadini hanno campicelli da mezzo ettaro che a questa altitudine danno un solo raccolto all´anno. La terra dà a malapena da mangiare, il massimo del lusso è un maiale o qualche pollo da vendere al mercato per comprare un po´ di olio di semi per cucinare e il carbone per le stufe. L´attivista che difende la causa del popolo Norsu, Hou Yuangao, prima di arrivare qui ha voluto far sosta al supermercato di Xichang per riempire la jeep di latte biscotti e farina. Siamo a poca distanza dal centro di comando dove la Cina lancia i suoi satelliti in orbita, ma i bambini si avventano sulle bottigliette di latte come fossimo in un campo profughi del Sudan.
Youha Qubi ha sette anni, ne dimostra quattro. Nel febbraio 2005 era in punto di morte, un mucchietto di ossa e pelle stremato da tubercolosi diarrea e denutrizione. La gente del villaggio si era già riunita nel cortile di casa sua per iniziare il rito del funerale. Nessuno aveva i mezzi per trasportarlo in ospedale. La madre era morta di Aids, il padre è in prigione. Hou Yuangao lo ha salvato in extremis, oggi Youha è guarito e può andare nei campi a pascolare «la» pecora del nonno, il solo patrimonio familiare.
Grazie all´aiuto umanitario Youha ha iniziato perfino a frequentare la scuola elementare dove studia l´aritmetica e il cinese (ma ancora non riesce a pronunciare una sola parola di mandarino). Suo padre dovrebbe uscire dal carcere all´inizio dell´anno prossimo. Quando Youha ne parla si scurisce in volto, spaventato. Il ritorno a casa di un tossicodipendente il più delle volte è un disastro che aggiunge nuove sofferenze e privazioni per le famiglie.
Ameng Jieda, 33 anni, sieropositivo, è uno dei pochi della «generazione di mezzo» che riesco a incontrare al villaggio. Sposato, con due figli di 8 e 5 anni, sieropositivi anche loro.
«Nel 1997 non potevo più stare qui, sono partito per la città in cerca di soldi. Non ho trovato niente, non parlo cinese, non ho un mestiere. Sono finito in prigione per furto, appena rilasciato ho cominciato a iniettarmi l´eroina come tutti i miei coetanei.
«Adesso sono sfiancato dalla polmonite, non posso lavorare, mi mantiene mia madre di 70 anni». Scadente, tagliata con ogni sorta di porcherie, qui una dose di eroina si trova anche per quattro o cinque euro, basta per abbrutirsi un giorno. Al villaggio di Jiudu le uniche case con i tetti a posto e l´antenna satellitare della televisione sono quelle degli spacciatori. Nei sentieri fangosi, tra gli escrementi e gli animali che razzolano, ogni tanto si affaccia a una porta una ragazza che invece dell´aspetto tradizionale dei Norsu esibisce il rossetto, i capelli tinti, i tacchi alti e i jeans. Corteggiano un misero benessere inquinato, gravitano nel giro della «gioventù bruciata» che ha fatto la sua scelta. Meglio la roulette russa dell´Aids che l´alternativa: la vita dei nonni, curvi lassù in montagna sotto il sole cocente, immersi fino alle cosce nel fango delle risaie.
(1 – continua)

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