by redazione | 20 Maggio 2006 0:00
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(da La Repubblica, SABATO, 20 MAGGIO 2006, Pagina 30 – Cronaca)
Nell´isola veneziana di San Servolo da oggi una struttura che ricorda due secoli di “cure“
Dai “compassi“ all´elettrochoc il manicomio diventa museo
Inaugurato nel 1725, il centro di contenzione per malati di mente fu chiuso nel 1978
Le due facce della vecchia istituzione: bastone e carota, costrizione e cura
Roberto Bianchin
SAN SERVOLO (Venezia) – Mica ci voleva venire, in questa isoletta sperduta in mezzo alla laguna, muri alti e inferriate, il nobiluomo Lorenzo. Ce lo mandarono a forza. Era il 26 ottobre 1725, e nel registro dei malati si legge che «l´illustrissimo Signor Lorenzo Stefani fu Sebastiano, di anni 32, fu condotto in quest´isola per ordine dell´Eccelso Consiglio dei Dieci come pazzo». Lorenzo fu il primo matto, e con lui il manicomio di San Servolo, già convento dei monaci benedettini fin da prima dell´anno Mille e poi ospedale militare, cominciò la sua lunga storia, durata fino al 13 agosto 1978 quando uscì, subito dopo il varo della legge Basaglia, l´ultimo dei 330 pazzi ancora rinchiusi. Per 253 anni San Servolo è stata «l´isola dei matti».
Ce ne sono stati più di 200mila, con una media di 800 ricoveri l´anno, fra tranquilli, malinconici e furiosi, ricchi e poveri, sconosciuti e importanti, come il pittore Gino Rossi, e come Ida Dalser, l´amante del Duce che gli aveva dato un figlio, Benito Albino, e che, come racconta Alfredo Pieroni nel libro “Il figlio segreto del Duce“ (Garzanti), vi morì a 52 anni, nel 1937, ospite della vicina sezione femminile di San Clemente, dopo avergli scritto: «Sai benissimo che le mie facoltà psichiche sono in perfetto ordine. Va´ là Duce che sei un povero uomo».
Due secoli e mezzo di pazzia da oggi tornano a galla con l´apertura del museo del manicomio di San Servolo, «La follia reclusa», realizzato dalla Provincia di Venezia, proprietaria dell´isola, e dalla Fondazione Irsec di ricerche sull´emarginazione. «Un´operazione culturale e scientifica di inestimabile valore, che rappresenta la voglia di non dimenticare» spiega il presidente della Provincia Davide Zoggia. È un viaggio inquietante e affascinante negli abissi della mente, negli strumenti di cura e contenzione, e nelle storie private di migliaia di matti, di cui sono custodite le cartelle cliniche, un paio di fogli per paziente, con le foto dei malati prima e dopo la cura, le lastre fotografiche, i vetrini di tessuti cerebrali, e persino alcuni crani e cervelli dai quali si cercava di studiare com´era nata la pazzia. Un archivio unico e imponente che ha ispirato lo scrittore Sebastiano Vassalli per il suo romanzo “Marco e Mattio“ e l´attore Ascanio Celestini per lo spettacolo “La pecora nera“.
Perché il museo, come rileva uno dei curatori, il neuropsichiatra Diego Fontanari, mostra le due facce del vecchio manicomio: la contenzione e la cura, la punizione e la speranza. Fa una certa impressione la sezione dedicata ai «metodi di contenzione», usati per «calmare i matti furiosi»: gabbie di ferro per docce forzate con acqua gelida o bollente, catene, manette, manicotti, camicie di forza, guanti di cuoio senza dita che si chiudevano a chiave intorno ai polsi. Ma anche i primi apparecchi per l´elettroshock, inventati dall´italiano Ugo Cerletti, e sperimentati nel 1938, alcuni «compassi» lombrosiani per misurare il cranio, o i rarissimi «pletismografi auricolari», antesignani della macchina della verità.
Strumenti che sembrano più di tortura che di cura, e che suscitarono molte proteste e denunce da parte dei pazienti. Ma c´era anche chi si dava da fare per alleviare le sofferenze. Come il primario Cesare Vigna nell´800, amico di Verdi, che fu il primo a praticare una sorta di musicoterapia Si era procurato un pianoforte viennese che utilizzava per dare concerti nella «sala della musica». Nonostante questi tentativi, il manicomio restava un inferno da cui molti tentavano di scappare. Spesso a nuoto, scavalcando le inferriate e buttandosi nelle acque della laguna.
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