PRECARI. La grande mutazione del lavoro giovanile. Articolo di Gallino

by redazione | 28 Marzo 2006 0:00

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(da La Repubblica, MARTEDÌ, 28 MARZO 2006, Pagina 53 – Varie)

Se il futuro si tinge di nero

La grande mutazione del lavoro giovanile


Dall´Italia al resto d´Europa, come sono cambiate le regol d´assunzione

LUCIANO GALLINO
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Precari sono coloro che debbono pregare qualcuno per ottenere un lavoro, o per conservarlo. Il destinatario della preghiera, che assume talora forma di un CV (Curriculum Vitae?), può essere un´azienda piccola o grande, un settore della pubblica amministrazione, un´agenzia del lavoro in affitto. A volte è il boss locale. Sollecitato da cento preghiere o CV per due soli posti disponibili, il destinatario concede eventualmente il lavoro a due persone, avendo cura di chiarire che questo è soggetto a revoca, in data prestabilita. Dopotutto il termine precarius possedeva in origine la duplice accezione di qualcosa che si pratica soltanto in base a un´autorizzazione revocabile, e che è stato ottenuto non già per diritto, bensì per mezzo d´una preghiera. Forse non sapevano, quei lontani giuristi, di anticipare quella che sarebbe stata definita l´essenza della modernità.
A chiedere un lavoro, pregando, i precari e le precarie sono costretti dalla acuta percezione della loro individuale superfluità e sostituibilità, in quanto membri della forza lavoro globale. Percezione in essi coltivata a opera della scuola, dalle medie ai master in Ingegneria finanziaria, non meno che dai mezzi di comunicazione e dal discorso politico. Una persona accetta quel lavoro soggetto a revoca vuoi perché sa benissimo che nei suoi dintorni vi sono altre cento come lei pronte a subentrare nel medesimo posto, vuoi perché sa pure che in India o in Cina, in Brasile o nel Sud Africa altre migliaia d´individui sono disponibili per quel lavoro, con una retribuzione cinque o dieci volte inferiore. Ciascuno di essi etichettato come tendenzialmente superfluo dalla tecnologia, abbinata all´ideale metafisico eppur pienamente operante dell´impresa con zero dipendenti, e comunque reso sostituibile in ogni momento dalla omogenizzazione delle competenze necessarie per svolgere la maggior parte dei lavori. Se dal loro paese essi non si spostano, come accade, sarà il lavoro a trasferirsi dalle loro parti. Conviene dunque accettarlo, quel lavoro revocabile, quali che siano la durata e la paga.
Precari sono coloro cui i teorici della terza via raccomandano, quale mezzo di autorealizzazione e insieme espressione della cosiddetta “nuova ragionevolezza“, di concepire il proprio io e la propria famiglia come una società per azioni. La proposta è contenuta, alla lettera, nel rapporto preparatorio della legge tedesca di riforma del mercato del lavoro, denominata dal suo principale autore Hartz-IV, entrata in vigore all´inizio del 2005.
L´idea di un io-Spa e di famiglia-Spa non è in fondo molto diversa da quella di autoimprenditorialità, da tempo raccomandata pure in Italia ai giovani nel quadro delle politiche attive del lavoro, però è tecnicamente meglio definita. Quando una persona arrivi a concepire sé stessa come una Spa, si sostiene, essa saprà valutare più razionalmente – ossia con rinnovata ragionevolezza – il rapporto costo/benefici di differenti strategie di impiego della propria forza lavoro. Si renderà conto, ad esempio, che dopo aver perso il posto perché la sua azienda è stata delocalizzata in Moldovia, è meglio accettarne un altro pagato il 20 per cento in meno, meno qualificato, di breve durata, e a 50 chilometri da casa, piuttosto che restar senza lavoro e perdere pure il sussidio di disoccupazione. Normative simili alla Hartz-IV sono state varate nel Regno Unito e in Francia, e dottamente proposte, in varie forme, pure da noi. Resta da precisare, in codeste normative, in qual modo la famiglia-Spa di un lavoratore o una lavoratrice precaria possa riuscire a far salire il proprio valore borsistico, come usano le imprese, mediante massicci riacquisti di azioni proprie.
Sono anche, i precari, campioni internazionali della presenza ubiquitaria. Si incontrano, con una frequenza non osservabile per alcun altro tipo di lavoratore, in aziende di ogni dimensione e di tutti i settori dell´industria manifatturiera e delle costruzioni, nonché nelle compagnie teatrali e nei centri di ricerca, nell´editoria e nelle micro-aziende di informatica, nella moda – da cui il termine tecnico prêt-à-précariser – e nei cantieri navali. E naturalmente, a legioni, nella Pubblica amministrazione, dalla scuola agli enti territoriali. Tutte persone accomunate dallo svolgere un lavoro che a distanza di alcune settimane o di pochi mesi potrà forse essere rinnovato, mediante un ennesimo contratto di durata determinata e normalmente breve, ma che potrebbe anche, dall´alto o da lontano non fa differenza, venire revocato. Donde la pressione cui si è sottoposti per apparire sempre super-performanti, diligenti, ben adattati alle mansioni da svolgere, e soprattutto – a costo di ammalarsi – in buona salute.
La collocazione ubiquitaria dei precari, non meno dell´ubiquità delle condizioni in cui operano, ha contribuito a diffondere tra loro una comune cultura del lavoro. Essa ruota attorno all´idea che ormai è la normalità stessa del lavoro, quella che per una o due generazioni i genitori o i nonni avevano conosciuto, a esser stata revocata. Qualcuno l´aveva autorizzata, senza specificare per quanto a lungo; qualcun altro sembra aver ritirato all´improvviso l´autorizzazione. Per i precari, è la normalità a esser diventata atipica.
Non da ultimo, i precari rappresentano una contraddizione inscritta nel profondo d´una società che dichiara di volersi fondare sempre più sulla conoscenza. Quelli di loro – non sono pochi – che riescono a mantenere un percorso coerente entro un dato ambito professionale, nel mentre passano ripetutamente da un´impresa a un´altra tutta diversa, a suon di contratti di breve durata, giungono ad accumulare saperi tecnologici e competenze organizzative in misura e qualità tali da essere in genere difficilmente accessibili a chi lavora per lustri o decenni entro una medesima organizzazione.
È il tipo di saperi e competenze, modulari e polivalenti, che una società della conoscenza, come la nostra e altre della Ue usano definirsi, dovrebbe trattare con ogni riguardo, facendo tutto il possibile per moltiplicarli. I loro portatori risultano invece sottopagati, sottotutelati, nonché guardati spesso con diffidenza dai responsabili delle risorse umane perché inclinano a cambiare troppo spesso il posto di lavoro. Se mai la politica dovesse tornare a occuparsi delle contraddizioni reali che si osservano in una società, questa meriterebbe forse un´apposita nota in agenda.

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SILLABARIO

ZYGMUNT BAUMAN
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Sul piano sociale e psicologico, l´impatto più profondo della flessibilità consiste nel rendere precaria la posizione delle persone prese di mira e nel mantenerle precarie, con l´adozione di misure quali la sostituzione dei contratti a tempo indeterminato e garantiti dalla legge con assunzioni a termine o collaborazioni temporanee, che permettono il licenziamento immediato. Tutte tecniche di assoggettamento che, nel complesso, producono una situazione di incertezza endemica e permanente. La cieca esecuzione dei compiti fissati dalle imprese si radica in questo senso di incertezza annichilente, nella paura, nello stress e nell´ansia generati dall´incertezza. E poi c´è l´arma decisiva: la minaccia costante, a tutti i livelli della gerarchia, del licenziamento, e quindi della perdita dei mezzi di sussistenza, dei diritti acquisiti, di un posto nella società e della dignità umana che esso comporta: «Il fondamento ultimo di tutti i regimi economici che si pongono sotto il segno della libertà è perciò la violenza strutturale della disoccupazione, della precarietà e dell´implicita minaccia di licenziamento».

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