MOVIMENTI. Una recensione di Pratiche costituenti

by redazione | 2 Febbraio 2006 0:00

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(Il manifesto, 2 febbraio 2006)

Movimenti senza alleati

Movimenti, rappresentanza e stato. Un triangolo che trovava nella forma partito una sintesi superiore. Una visione della politica e del conflitto rifiutata dal «movimento dei movimenti» e che trova una forte eco nei contributi raccolti nel volume collettivo «Pratiche costituenti»

Un libro che alterna analisi sul possibile futuro dei forum sociali, serrati confronti tra le inedite forme di socializzazione politica che tuttora incarnano e la narrazione delle diverse esperienze locali. Sempre in nome della loro automomia

MARCO BASCETTA

Fin dai suoi esordi il World social forum non ha mai cessato di interrogarsi sulla sua propria natura. Questa interrogazione e le formulazioni, più o meno provvisorie, più o meno condivise, più spesso contraddittorie, che ha ottenuto in risposta costituiscono parte integrante dell`agire politico stesso di questa assemblea planetaria. Paradossalmente, se mai il Wsf dovesse pervenire a una definizione univoca e indiscussa della propria funzione, questo traguardo potrebbe coincidere con il suo declino. Se il forum sociale mondiale dovesse alla fine cristallizzarsi in una forma politica definita, probabilmente cesserebbe di agire, come finora ha fatto, in quanto processo di produzione di diverse forme politiche da una parte, e come sfera pubblica che le passa al vaglio e le giudica dall`altra. Fino ad ora il discorso sul World social forum, affezionato ai suoi caratteri innovativi, si era tenuto al riparo dai paragoni e dagli ascendenti storici. Ma ormai, con crescente insistenza, circola il nome di un antenato illustre: la conferenza di Bandung (Indonesia) del 1955, l`incontro tra capi di stato e forze politiche da cui avrebbe preso le mosse il movimento dei non allineati (Tito, Nasser, Nehru, Sukarno, tra i grandi protagonisti di quella stagione) alla ricerca di uno spazio di esistenza politica, fuori dall` egemonia atlantica e dalla sfera d`influenza sovietica e, almeno in parte, dai rispettivi modelli di società. Ma l`antenato, ancorché illustre e anch`esso in lotta con l`ordine mondiale del suo tempo, mostra tuttavia i tratti di uno spettro inquietante. Quelli di un alleanza tra sovranità nazionali che, nel battersi legittimamente contro il colonialismo, lo sviluppo diseguale e la politica di potenza della guerra fredda, poco incise sul rapporto tra governanti e governati quanto alla rimozione di dispositivi autoritari e poteri gerarchici e allo sviluppo di diritti collettivi e individuali. Se pur non se ne può mettere in discussione la legittimità storica, gli esiti deludenti, a volte tragici, dei regimi postcoloniali, non possono essere cancellati, né si può accantonare il bisogno di una soluzione di continuità con quello schema della «liberazione nazionale» che ha dominato, in forme difficilmente accettabili, la seconda metà del Novecento e che in nessun modo potrebbe costituire ancora un modello attuale.

Tra sintesi e rappresentanza

La veemente oratoria antimperialista di Hugo Chavez, che irrompe da protagonista sulla scena del Forum sociale delle Americhe di Caracas, non promette certo di muovere in questa direzione. Semmai in quella di una crescente leadership di governi e forze politiche istituzionali connotate come «antiliberiste» sul «movimento dei movimenti». Fino a quando, e non lo si può certo escludere, la ragion di stato «antimperialista» non entri in attrito, o in rotta di collisione, con le aspirazioni dei movimenti e le prerogative dei singoli. Molte forze, segnatamente tra i pionieri del Wsf come Chico Withaker o tra i teorici dell`«autodeterminazione» radicalmente antistatalisti come John Holloway, nonché diverse reti di attivisti, si battono contro i rischi di una simile deriva, accusati a loro volta dalla controparte di votare il movimento globale all`impotenza, a un ruolo puramente testimoniale o al conseguimento di modesti risultati locali.

Di questa discussione, che si allarga alla natura dei movimenti e dei rapporti tra diversi movimenti, a ciò che li distingue dai partiti politici e dalle organizzazioni sindacali, all`efficacia delle reti e delle forme orizzontali di socializzazione politica cerca di dare conto un`ampia raccolta di saggi e di interventi, piuttosto eterogenei e talvolta alquanto confusi, a cura di Marco Berlinguer e Mauro Trotta, ma che ha comunque il merito di offrire sinteticamente un vasto arco di posizioni (Pratiche costituenti, DeriveApprodi, pp.300, € 16).

Il tema della rappresentanza e della sua crisi o, detto in altri termini, il processo di formazione di una volontà politica e gli strumenti per affermarla e renderla efficace, si colloca al centro di questa discussione. Lo schema più classico è ben noto: i movimenti, calati nella vita materiale delle società e a immediato contatto con le contraddizioni che le attraversano, raccolgono e organizzano resistenze e aspirazioni, le trasformano in «istanze di movimento» che i partiti, all`opposizione o al governo, sono chiamati a tradurre in soluzioni politiche e progetto. A differenza dalla cosìddetta «società civile», termine di cui a più riprese e impropriamente si abusa, i movimenti non coincidono con il libero gioco degli interessi particolari (che è poi la sola definizione storicamente consolidata e rigorosa del termine in opposizione a comunità politica), ma costituiscono già una dimensione collettiva e una confluenza politica,

Vi è qui già un primo slittamento dallo schema tradizionale della rappresentanza politica. Non si tratta più di una pura e semplice delega della volontà politica da parte di un insieme di soggetti, legati più o meno strettamente a una determinata costellazione di interessi, la cui interpretazione (coscienza) resta però affidata a una forza politica organizzata di riferimento, come avveniva nel rapporto tra classe e partito. Ciò che dai movimenti, le forze politiche e le istituzioni dovrebbero raccogliere non è l`oggettivo «interesse di classe», ma una sorta di «semilavorato politico» già intriso di soggettività, qualcosa di più di una domanda e qualcosa di meno di un progetto e del potere di realizzarlo. E` a un siffatto «incontro a mezza strada» che si rifanno tutte quelle posizioni che vedono nel convergere di un`azione dal basso con un`azione dall`alto la possibilità concreta di una trasformazione dello stato di cose esistente. Ma questa ripartizione dei compiti, questa mezza rappresentanza, per chiamarla così, non manca di suscitare diffidenza. Essa lascia infatti inalterate le forme tradizionali della politica, i partiti e lo stato, ai quali resta comunque la parola definitiva o, per dirla altrimenti, il potere esecutivo. Il potere di scegliere, discriminare, selezionare. E priva, al tempo stesso, i movimenti della capacità di affermare autonomamente, e fuori da ogni mediazione istituzionale, praticandoli direttamente, comportamenti, forme di vita, diritti futuri. Capacità che dei movimenti costituisce la sostanza politica più propria.

Ma se allora è una nuova forma della politica, quella del movimento appunto, l`orizzonte verso cui procedere, è intorno a questa forma stessa che si dipana, non sempre limpidamente, la discussione. Secondo due direttrici che possiamo riassumere in due figure differenti e antitetiche: quella del fiume che si allarga con l`apporto di innumerevoli affluenti e quella della rete. Del fiume non si può certo dire che «rappresenti» i suoi affluenti, ma certamente li contiene e, mescolandone le componenti, li trasforma non solo in una forza maggiore, ma anche in un diverso paesaggio. Ha un alveo, una direzione della corrente, uno sbocco al mare. Anche se in linea teorica gli affluenti potrebbero, a un certo punto, cessare di alimentarlo.

Nei nodi della rete

I nodi della rete mantengono, invece, una maggiore reciproca indipendenza, sebbene questo non significhi che non possano formare un disegno complessivo. Tuttavia, nel loro rimanere distinti, possono essere agiti, e giudicati, singolarmente. Non v`è dubbio che la prima figura intrattenga una più stretta parentela con le forme classiche di trascendenza del politico e che la seconda possa finire con l`adagiarsi negli interstizi dello stato di cose presente. In ogni modo è un`alternativa di questo genere quella che si gioca tra quanti definiscono il World social forum uno «spazio» aperto e indeterminato se non per una generale sensibilità condivisa, e quanti lo vorrebbero esso stesso movimento, sia pure «dei movimenti». Tra quanti lo considerano un`occasione di confronto tra una molteplicità di esperienze irriducibili e quanti lo vorrebbero momento di sintesi capace di parlare con una sola voce e dotato di organismi che ne assicurino presenza e continuità. Nel primo caso il forum potrebbe degenerare in una fiera campionaria delle pratiche politiche, esibite le une accanto alle altre secondo una semplice analogia tipologica e tenute insieme dalla retorica sempre più stucchevole dell`«altro mondo possibile». Nel secondo caso, trasformarsi in una sorta di partito informale, fondato non più sulla rappresentanza dei soggetti sociali, ma su quella dei grandi temi: la lotta alla povertà, la giustizia globale, la salute del pianeta, l`umanità dell`umanità. Laddove una serie di personalità internazionali, affiancate da qualche abile faccendiere di movimento, finirebbero con l`incarnare queste tematiche decisive, destinate a delimitare l`alveo del grande fiume dei movimenti e a interagire pragmaticamente con i «governi» amici. Ma qui, più che al dispositivo della rappresentanza, converrebbe richiamarsi all`investitura per diritto divino.

Sebbene sia solo nel primo caso che si ravvisano i maggiori elementi di innovazione politica e qualche antidoto all`autoconservazione della sovranità, l`idea della rete, nel suo passaggio dal cyberspazio (il controllo del quale è del resto una partita ancora in corso) allo spazio politico-sociale, incontra non poche difficoltà di applicazione e di efficacia. Di queste difficoltà si alimenta uno sguardo rivolto al passato, nostalgico di modelli organizzativi già esperiti (sebbene anche nel loro fallimento). Fino a subire il fascino del richiamo chavezista a una sorta di politica di fronte popolare (il «grande fronte antimperialista»), pronta ad accogliere o inglobare la molteplicità eterogenea dei movimenti indirizzandola verso «l`orizzonte del socialismo». La cui catastrofe, soprattutto nelle sue versioni terzomondiste, viene sconsideratamente rimossa. Come rimosso è il fatto che i movimenti del presente (sia quelli caratterizzati da un`idea radicale di democrazia che quelli ispirati dal fondamentalismo religioso), e i conflitti che hanno messo in moto, nascono dopo e in seguito a quella catastrofe e al disfacimento del modello di società che ha portato con sé. Hanno cioè una connotazione essenzialmente «postsocialista». Che vuol dire in primo luogo oltre la fede nelle qualità salvifiche dello stato e delle identità nazionali, sia pure «rivoluzionarie» e antimperialiste.

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