LAVORO E CONTRATTI. Dialogo tra Eugenio Scalfari e Pietro Ichino
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(da lavoce.info)
22-02-2006
La riforma della contrattazione collettiva: dialogo tra Eugenio Scalfari e Pietro Ichino
Pietro Ichino La critica che lei muove nel suo articolo alla mia proposta di riforma della contrattazione collettiva è che essa porterebbe inevitabilmente a una destrutturazione del sindacato italiano. Io sostengo invece che quella riforma porterebbe a rivitalizzare il sindacato, radicarlo meglio nel nostro tessuto produttivo. Mi spingo addirittura a sostenere che essa consentirebbe di conciliare più facilmente l’obiettivo della protezione dei più deboli con l’aumento del reddito dei più forti.
Eugenio Scalfari Guardiamo al panorama internazionale. Nei paesi dove la contrattazione collettiva è decentrata il sindacato si è sempre più indebolito, fino quasi a sparire. Mi dica: qual è il peso del sindacato oggi nell’economia americana, o in quella britannica? E dove, invece, il sindacato è rimasto forte? È rimasto forte nei paesi scandinavi, in Germania, dove al centro del sistema c’è il contratto collettivo nazionale di lavoro [d’ora in poi: Ccnl – n.d.r.]. In una società in cui tendono a sparire i partiti come organizzazioni di massa, il sindacato è rimasto come una delle poche isole organizzate di resistenza; bisogna stare molto attenti a smantellarlo.
P.I. Anche in Svezia e in Germania, però, oggi si assiste a una tendenza allo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia; spostamento che non è subito, ma voluto dal sindacato stesso. Comunque, io non propongo affatto di passare, in Italia, da un sistema centralistico al sistema opposto.
E.S. Anche le vie di mezzo non sembrano avere dato buona prova.
P.I. Gli studi più recenti di relazioni industriali su questo punto non danno risposte univoche; quanto ai sistemi centralizzati sappiamo che hanno, sì, l’effetto di ridurre le disuguaglianze, ma anche quello di ridurre la responsiveness, il dinamismo del tessuto produttivo. Io propongo solo un correttivo del nostro sistema centralizzato attuale, volto ad aumentarne il dinamismo, senza che ne derivi una perdita del grado di “copertura“ che esso può dare ai lavoratori; anzi, semmai un aumento. L’idea è molto semplice: conserviamo il Ccnl così com’è oggi, anche con il suo grado attuale di copertura; ma al livello regionale, territoriale o aziendale consentiamo a un sindacato serio, che sia sorretto dalla maggioranza dei lavoratori interessati, di sperimentare soluzioni diverse, negoziando anche in deroga rispetto al Ccnl. In altre parole: il Ccnl si applicherà integralmente in tutti i casi in cui non ci sia un contratto collettivo di livello inferiore, stipulato da un sindacato abilitato a farlo, che ponga una disciplina diversa.
E.S. Cioè, in sostanza, consentiamo che la contrattazione di secondo livello abbassi lo standard: questo significa la derogabilità del Ccnl.
P.I. Questo è l’aspetto che suscita la diffidenza diffusa; e ora ne discuteremo. Ma la novità non starebbe soltanto nella possibilità di abbassare lo standard nelle situazioni in cui si ritiene che questo sia necessario per far riemergere il lavoro nero, o per favorire ragionevolmente l’insediamento di nuove imprese. La questione della derogabilità si pone anche nelle zone forti del tessuto produttivo, dove la deroga può essere necessaria per sperimentare nuovi modelli di organizzazione del lavoro e/o nuovi modelli di relazioni sindacali in azienda: nel libro cito il modello della lean production sperimentato dalla Nissan in Inghilterra e in Spagna, e non importabile in Italia perché incompatibile con il modello di organizzazione del lavoro tipico dei nostri Ccnl industriali; ma si potrebbero fare diversi altri esempi. Allo stesso modo, la deroga può avere per oggetto una struttura diversa della retribuzione: per esempio un aumento della parte del compenso che varia con i risultati individuali, di gruppo o aziendali.
E.S. Un mutamento di questo genere della struttura delle retribuzioni, se è una cosa seria, comporta un aumento del grado di partecipazione e controllo dei lavoratori nella gestione dell’azienda. Ma sappiamo che gli amministratori di una società hanno mille modi per far sì che la partecipazione e il controllo siano soltanto un fumus. Se non sono solo un fumus, le cose si complicano ulteriormente: sappiamo come funziona l’impresa capitalistica. A questo proposito, poi, ho un’altra obiezione da muoverle: la traggo da un articolo di Luciano Gallino che abbiamo pubblicato alcuni giorni fa: come si fa a stabilire la produttività o la redditività reale di un’azienda, quando questa è soltanto il punto terminale di un’attività che si svolge in una rete di aziende disperse in tutto il mondo?
P.I. Questa obiezione porterebbe a negare la possibilità di qualsiasi premio aziendale di produttività o redditività: non mi sembra che si possa arrivare a questo. Nel panorama internazionale, del resto, e in qualche misura anche in quello italiano, troviamo moltissimi casi nei quali la trasparenza della gestione aziendale non è solo fumo negli occhi: casi nei quali l’imprenditore è davvero affidabile e disposto a condividere fino in fondo tutte le informazioni di cui dispone. Non è dunque insensato pensare a un sindacato-intelligenza collettiva dei lavoratori, capace di valutare l’affidabilità dell’imprenditore, la bontà del progetto, e, se la maggioranza dei lavoratori lo sostiene, abilitato a scommetterci sopra.
E.S. Questo oggi il sindacato può ben farlo anche in Italia.
P.I. Non può se il progetto comporta un modello di rapporto, di organizzazione del lavoro, e/o di struttura della retribuzione non compatibile con quello previsto dal Ccnl. E Ccnl significa centinaia e centinaia di disposizioni, anche minuziosissime, su organizzazione del lavoro e struttura della retribuzione. Per rendere possibile quella scommessa occorre che al sindacato sorretto dalla maggioranza dei lavoratori interessati venga data anche in periferia la possibilità di negoziare a tutto campo. In alcuni casi la possibilità di questa scommessa fa la differenza tra la nascita o no di un’impresa. E in molti altri casi poter stipulare quella scommessa può consentire ai lavoratori di puntare a guadagni notevoli.
E.S. Ma se invece poi le cose vanno male…
P.I. Non sto parlando di una partecipazione integrale dei lavoratori al rischio di impresa, né di azzerare ogni rete di sicurezza: sto parlando soltanto della possibilità di modulare il contenuto assicurativo del rapporto di lavoro. Oggi in Italia il Ccnl impone sostanzialmente, oltre a un modello unico di organizzazione del lavoro, anche un modello unico di rapporto individuale di lavoro definito fin nei dettagli, ad alto contenuto assicurativo, che comporta naturalmente un “premio assicurativo“ implicito corrispondentemente molto alto a carico dei lavoratori. Questa è una delle cause delle retribuzioni orarie più basse di cui godono i lavoratori italiani, a parità di costo e di produttività del lavoro per le imprese. Quello che propongo è che nel nostro tessuto produttivo possano confrontarsi e competere tra loro modelli diversi di rapporto di lavoro, con diversi livelli di contenuto assicurativo; e, corrispondentemente, modelli diversi di relazioni industriali, con diversi gradi di partecipazione e coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori.
E.S. Se la maggiore partecipazione dovesse essere effettiva, sarebbero gli imprenditori a opporvisi. Così come oggi è la Confindustria, insieme alla Cgil, a difendere con maggior decisione l’inderogabilità del Ccnl.
P.I. Certo, nell’impresa nella quale sono maggiormente condivise le informazioni e condiviso il rischio, la torta da spartire generalmente si ingrossa perché i lavoratori sono più consapevoli e più fortemente incentivati; ma, proprio perché meglio informati e più partecipi, essi sono anche in grado di appropriarsi di una porzione molto maggiore di quella torta. Oltre una certa soglia, dunque, maggiore partecipazione vuol dire sovente minori profitti per l’imprenditore, pur in una azienda che funziona meglio. Questo è vero; ed è un buon motivo per non considerare il modello partecipativo come una concessione dei lavoratori all’imprenditore: in realtà è una loro conquista; ed è possibile soltanto in certe imprese e a determinate condizioni. Ma prima di arrivare alla vera e propria partecipazione, la “scommessa comune“ può esprimersi anche in forme di cooperazione meno spinte. Nessuno può dire, comunque, in astratto, se per i lavoratori sia meglio la scommessa o sia meglio la polizza assicurativa. Quello che propongo è che i due modelli possano confrontarsi tra loro; e che ai lavoratori, pur con tutte le cautele necessarie, sia data una possibilità di scelta tra di essi.
E.S. In questo nuovo sistema che lei sta delineando, in fin dei conti, la realtà più rilevante è l’imprenditore schumpeteriano, portatore dell’innovazione, inventore di nuovi modi di combinare i fattori della produzione: in questa nozione di imprenditore schumpeteriano finiscono coll’essere ricompresi anche i lavoratori, nella misura in cui la loro “intelligenza collettiva“, come lei dice, li porta sostanzialmente a entrare in una joint venture con l’investitore, a rischiare il loro lavoro come l’investitore rischia il capitale. Se è così, in questo modello il sindacato, inteso come strumento di solidarietà, unità e uguaglianza tra i lavoratori di una categoria, di un paese, rischia di non contare più niente.
P.I. Non mi sembra che la mia proposta porti a questo. Io propongo che al livello nazionale e di categoria il sindacato conservi la sua funzione di negoziare e stipulare il Ccnl; e che lo standard fissato dal Ccnl resti sempre una garanzia per tutti, operante dovunque il sindacato sia assente o troppo debole per imporre la contrattazione aziendale; operante comunque come riferimento generale. La novità sta nel fatto che il sindacato svolga, oltre a questa funzione generale, anche quella di rendere possibile con la dovuta ampiezza, ai livelli inferiori, la “scommessa“ dei lavoratori su di un progetto industriale particolarmente innovativo, oppure su di un piano straordinario di sviluppo economico di una regione. Per questo occorre che l’autonomia collettiva ai livelli inferiori, quando sia esercitata da un sindacato serio e sorretto da un consenso maggioritario, possa operare anche in funzione sostitutiva rispetto al Ccnl.
E.S. Vede, il problema sta proprio in questa possibile funzione sostitutiva. Come ho scritto su La Repubblica nell’articolo da cui è nato questo incontro, il Ccnl oggi costituisce lo strumento e la garanzia principale dell’uguaglianza di trattamento e della solidarietà tra i lavoratori di una categoria; consentirne la deroga con contratti collettivi di livello inferiore rischia di riaprire la porta alla concorrenza tra i lavoratori, cioè di annullare la funzione essenzialmente propria del sindacato, inteso nel senso tradizionale.
P.I. Questo discorso potrebbe andar bene per il sindacato svedese dei decenni passati, che credeva davvero nell’inderogabilità del Ccnl ed era molto determinato nell’imporla; ma da noi non è così. In Italia i Ccnl stabiliscono per lo più degli standard che il Sud non riesce a reggere: anche per questo nel Sud metà dell’economia vegeta al di sotto dello standard; e nessuno si sogna di chiudere le imprese del lavoro nero, per paura di creare milioni di disoccupati. Dunque accettiamo la peggiore delle deroghe al Ccnl, per non assumerci la responsabilità di contrattare una deroga ragionata e controllata, l’adattamento dello standard che consentirebbe di renderlo davvero esigibile.
E.S. Nell’articolo con cui lei, molto civilmente, ha risposto al mio un po’ più ruvido, lei non parla solo dell’economia sommersa del Sud, ma osserva come anche al Centro e al Nord ci sia un’economia debole e precaria, che si difende attraverso una deroga di fatto allo standard nazionale, si aggiusta comprimendo il trattamento di immigrati, giovani, lavoratori marginali. Qui sono d’accordo con lei; e aggiungo che questo avviene anche attraverso le esternalizzazioni: gli appalti di interi rami della produzione a piccole aziende; la grande impresa-madre diventa un’azienda di progettazione, design e ricerca (quando la fa), ma per il resto si riduce a un’azienda di assemblaggio di pezzi prodotti da aziende più piccole, che possono derogare di fatto allo standard perché sfuggono più facilmente al controllo del sindacato e degli ispettori. In parte il fenomeno dell’outsourcing è fisiologico; ma in parte è solo un affidarsi al nanismo per consentire l’elusione dello standard nazionale.
P.I. È un’altra faccia dello stesso problema.
E.S. Ecco. Ma il sindacato confederale la battaglia contro queste forme di illegalità l’ha fatta. Quando Sergio Cofferati ha portato in piazza milioni di persone, lo ha fatto anche contro questo fenomeno.
P.I. A parole lo ha fatto. Nelle grandi rivendicazioni e mobilitazioni generali, negli slogan. Ma nei comportamenti effettivi anche il sindacato confederale tollera deliberatamente queste deroghe. Un prefetto calabrese, qualche tempo fa, mi diceva che per stanare le imprese al nero non occorrerebbe neanche mandare in giro gli ispettori: basterebbe confrontare le pagine gialle del telefono con i tabulati dell’Inps o del fisco, o dei consumi di elettricità; ma neppure i sindacati glielo hanno mai chiesto, perché se lo si fosse fatto si sarebbero persi troppi posti di lavoro, si sarebbe avuta la rivolta nelle piazze.
E.S. La battaglia della Cgil contro la modifica dell’articolo 18 non tendeva proprio a impedire che l’area dell’illegalità si estendesse? Alzare la soglia di applicazione della protezione contro il licenziamento avrebbe significato un ampliamento dell’area nella quale le imprese avrebbero potuto tenere i propri dipendenti sotto minaccia e quindi imporre loro le deroghe allo standard, in materia di orari, retribuzioni, ecc.
P.I. Mi sembra che della difesa dell’articolo 18 possa dirsi tutto, tranne che sia una forma di lotta contro il lavoro irregolare. Lo stesso articolo 18 convive tranquillamente, in grandi imprese e amministrazioni pubbliche, con l’utilizzazione sistematica di falsi collaboratori autonomi a centinaia, operanti gomito a gomito con i lavoratori regolari. Quando i co.co.co. o “lavoratori a progetto“ si rivolgono al sindacato di categoria, si sentono dire che devono iscriversi al Nidil: “nuove identità di lavoro“. Ci sono call centre che lavorano con migliaia di falsi collaboratori autonomi, sotto gli occhi di tutti. Anche lì i motivi della tolleranza si capiscono bene: probabilmente, se si imponesse il rispetto dello standard si perderebbero due terzi o più di quei posti, perché anche lì, come nelle plaghe del lavoro nero del Sud, la domanda di lavoro è molto elastica. Ma questo significa sostanzialmente accettare la deroga peggiore (perché illegale) al Ccnl; e significa farlo, per di più, in modo ipocrita e poco trasparente.
E.S. Nella pubblica amministrazione c’è stata e c’è tuttora una contrapposizione tra chi difende il rigore dei limiti di spesa e chi invece conduce una battaglia per la progressiva regolarizzazione dei precari. Il sindacato è in prima fila in questa battaglia; gli si può forse imputare di attentare agli equilibri della spesa pubblica, ma non di rimanere passivo di fronte a quella forma di lavoro irregolare.
P.I. Qui lei tocca un punto cruciale della questione: i vincoli della spesa pubblica. Non è un caso che i segretari della Fiom-Cgil Gianni Rinaldini e Giorgio Cremaschi coniughino la difesa intransigente del ruolo e dell’inderogabilità del Ccnl con la rivendicazione di un aumento della spesa pubblica, dell’intervento pubblico nell’economia, oltre che con una tendenziale opposizione all’internazionalizzazione della nostra economia. C’è una coerenza innegabile in questa coniugazione; ma finché il quadro in cui vogliamo ragionare è quello della nostra progressiva integrazione nell’Unione Europea, dobbiamo fare i conti fino in fondo con i vincoli che essa ci pone.
E.S. Mi rendo ben conto del valore di questa obiezione. Ci torneremo più avanti. Ma prima vorrei porle questa domanda: lei ricorda certamente che ci fu il periodo delle “gabbie salariali“. (1) Una volta abolite le “gabbie“, questa espressione è diventata un tabù negativo: anche progetti come il suo urtano contro un rifiuto netto e radicato. Le domando: perché?
P.I. Le gabbie salariali erano tutt’altra cosa: erano una differenziazione degli standard retributivi prestabilita centralmente e rigidamente. Quella differenziazione corrispondeva, a ben vedere, a una sorta di accettazione dell’inferiorità economica del Sud, della minore produttività del lavoro nelle regioni meridionale. Si stabilivano quelle differenze come permanenti e inevitabili. Quello che io propongo è esattamente il contrario: fissato il benchmark nazionale con il Ccnl, io propongo che un sindacato genuino e sorretto da una vera maggioranza dei lavoratori di una regione possa adattare quello standard in funzione di un progetto di sviluppo che consenta alle imprese della regione di uscire dall’illegalità e dal nanismo che ne consegue, in modo da poter raggiungere progressivamente il benchmark nazionale. Del resto, anche il costo della vita, a Vibo Valentia, è molto più basso che a Milano.
E.S. Già, ma occorrerebbe anche vedere quali sono effettivamente i consumi dell’operaio di Vibo Valentia; e di quali servizi dispone.
P.I. Occorrerebbe soprattutto una maggiore abitudine a raccogliere i dati in modo sistematico, a studiarli e a ragionare su di essi pragmaticamente. Questo eviterebbe tante dispute ideologiche e consentirebbe di scegliere tra le alternative possibili conoscendone molto meglio gli effetti reali.
E.S. – Lei crede che la contrattazione di una riduzione del costo del lavoro al Sud consentirebbe un’azione di recupero alla legalità di quell’enorme 40 per cento di economia sommersa?
P.I. Nel quadro di una grande operazione concordata dalle parti sociali con il governo locale e centrale, io credo di sì. In Germania, dopo l’unificazione del 1990, tra Est e Ovest c’era una differenza di produttività del lavoro simile a quella che c’è da noi tra Nord e Sud; in un primo periodo hanno tentato di realizzare l’uguaglianza tra Est e Ovest per decreto, applicando la ricetta centralistica; e hanno ottenuto invece un’enorme aumento della disoccupazione e del lavoro irregolare all’Est. Poi hanno imparato la lezione: il sindacato si è dato un programma più realistico di “costruzione“ dell’uguaglianza, con l’obiettivo di raggiungerla gradualmente entro il 2009, attraverso una fase di passaggio di negoziazione regionale, per consentire appunto la differenziazione degli standard. I primi risultati si stanno già vedendo.
E.S. Anche da noi sono state sperimentate alcune forme di deroga al Ccnl, in particolare per i distretti industriali e per determinate zone, con i “contratti d’area“, i “patti territoriali“, i “contratti di riallineamento“. Quell’esperimento è stato fatto; e non sembra che abbia dato risultati apprezzabili.
P.I. Quelle nostre esperienze sono una cosa molto diversa rispetto a quanto stanno sperimentando in Germania. Quelli erano contratti con efficacia molto circoscritta, che richiedevano una fase di preparazione laboriosissima, una triangolazione con l’amministrazione pubblica che presupponeva procedimenti amministrativi complessi, altissimi costi di transazione; e avevano carattere eccezionale. Inoltre richiedevano l’unanimità dei consensi: se Cgil, Cisl e Uil non erano tutte d’accordo, di diritto o di fatto erano impraticabili. Io propongo invece la possibilità di una contrattazione collettiva suscettibile di svilupparsi al livello regionale o aziendale in modo più fluido, anche senza il coinvolgimento dell’amministrazione pubblica e anche in situazioni di dissenso insanabile tra Cgil, Cisl e Uil, purché ad opera di una coalizione sindacale genuina e sorretta dalla maggioranza dei lavoratori interessati.
E.S. Mi sembra rischioso estendere questa soluzione al livello della singola impresa. L’obiezione nasce dalla mia esperienza nell’impresa che ho fondato e diretto per decenni. Quando a decidere sono i rappresentanti dei lavoratori in azienda, questo costituisce sovente un problema non da poco per l’imprenditore: quello che si è contrattato con il sindacato nazionale non conta più, conta solo quello che decidono i rappresentanti aziendali. Dove i lavoratori sono forti, questo va a danno dell’imprenditore: a volte i rappresentanti aziendali, quando sono massimalisti o radicaleggianti, agiscono con durezza maggiore rispetto al sindacato nazionale, sia sul piano delle rivendicazioni, sia su quello delle forme di lotta. Ma l’esperienza mi dice anche che nell’80 per cento dei casi avviene il contrario: il leader della rappresentanza sindacale, in vista di prospettive di carriera, o del fatto che il capo dell’azienda se lo porta a pranzo e lo consulta riservatamente su tante cose, finisce col diventare molto malleabile. Potrebbero diffondersi forme svariate di sindacalismo di comodo: soprattutto nell’azienda medio-piccola sarebbe facile per il padroncino ottenere che i dipendenti diano il loro appoggio a un sindacato creato ad hoc, disposto a firmare qualsiasi cosa. Per non parlare del rischio di un controllo mafioso su questo genere di sindacato.
P.I. Per evitare questo rischio, io propongo un filtro ulteriore, in aggiunta alla maggioranza dei consensi nell’ultima votazione nei luoghi di lavoro interessati: cioè che il sindacato, per essere abilitato a contrattare con efficacia piena, anche in deroga al Ccnl, debba essere radicato in almeno quattro regioni. Non è l’unico filtro possibile, si possono sperimentare altre tecniche normative; ma il rischio che lei paventa del sindacato di comodo è facilmente evitabile, anche perché i giudici del lavoro sono ben attrezzati per il controllo in questo campo. Inoltre la proposta di legge che ho inserito in appendice al mio libro prevede che i lavoratori scelgano ogni tre anni il sindacato da cui vogliono farsi rappresentare; nel corso del triennio, se i singoli rappresentanti aziendali adottano un comportamento incompatibile con la linea del sindacato scelto dai lavoratori, questo è abilitato a sostituirli, secondo le proprie regole statutarie interne.
E.S. Lei pensa al rappresentante aziendale come a una sorta di funzionario del sindacato in azienda?
P.I. Deve essere sempre, ovviamente, un dipendente dell’azienda. Ma è il sindacato a ricevere l’investitura dai lavoratori e deve essere pertanto il sindacato a operare attraverso quel lavoratore, avendolo designato come proprio rappresentante aziendale; libero, ovviamente, il sindacato stesso di farlo scegliere dall’assemblea di tutti i lavoratori, o da quella dei soli propri iscritti, o in altro modo previsto dal suo statuto associativo. E liberi i lavoratori, alla prima scadenza, se non sono soddisfatti, di dare la maggioranza dei loro consensi a un altro sindacato.
E.S. Mi sembra che questa sua proposta pecchi un po’ di illuminismo. Di fatto, se il sindacato pretendesse di sostituire il rappresentante aziendale “fuori linea“, i lavoratori si ribellerebbero; in questo modo si favorirebbe il diffondersi dei Cobas, che peraltro sono già diffusissimi. Perché la Cgil oggi si preoccupa tanto di mantenere il rapporto con la base, mediante il referendum, il confronto costante con l’assemblea? Perché altrimenti il sindacato perde il consenso dei lavoratori, si diffonde verso il sindacato quella stessa disaffezione che, sul terreno politico, si è diffusa nei confronti dei partiti.
P.I. Il rapporto organico tra sindacato e rappresentante aziendale non è una mia invenzione: lo ha istituito lo Statuto dei lavoratori del 1970, voltando pagina per questo aspetto, rispetto alla vicenda delle commissioni interne, che non erano organi del sindacato. Io sono favorevole a mantenere quel rapporto organico, lasciando libero ogni sindacato di gestirlo accentuando la democrazia diretta o quella delegata, dando più voce alla base indistinta o ai tesserati. Poi propongo che il numero dei rappresentanti sindacali aziendali non sia più uguale per tutti i sindacati accreditati, come lo Statuto prevede ancora oggi, ma sia proporzionato per legge, o per accordo interconfederale, ai consensi ottenuti da ciascun sindacato nella consultazione periodica. Saranno i lavoratori a dare più spazio al sindacato che fa meglio il suo mestiere.
E.S. Questo mi sembra ragionevole, anche se conservo le mie riserve sulla possibilità effettive di controllo del sindacato sull’operato dei propri rappresentanti in azienda. Soprattutto, poi, in una situazione nella quale alla contrattazione collettiva di livello aziendale vengano lasciate le briglie sul collo come lei propone.
P.I. Le briglie credo che possa tenerle in mano ben salde il sindacato da cui i lavoratori scelgono di farsi rappresentare; io lo credo capace di farlo, ma non ho la pretesa di convincerla su questo punto. Prima di chiudere, vorrei tornare a un tema che abbiamo lasciato sospeso. Il nostro cosiddetto “diritto sindacale vivente“, centrato sull’inderogabilità del Ccnl, è venuto consolidandosi in un’epoca in cui a Roma, dove si negoziava il contratto, si praticava una certa dose di dirigismo in economia, soprattutto mediante le leve del cambio della lira e degli aiuti di Stato alle imprese. Metà della nostra industria era a partecipazione statale e sorretta dai fondi di dotazione generosamente e puntualmente erogati a spese del contribuente. Lei non pensa che la disattivazione di queste due leve centrali della nostra politica economica nazionale debba avere dei riflessi anche sulla struttura della contrattazione collettiva, nel senso di un qualche spostamento del suo baricentro verso la periferia, di un maggiore spazio per la contrattazione decentrata?
E.S. Lei può avere ragione, ma, per entrare in questo ordine di idee, troppe cose allora devono cambiare. Una riforma di questo genere e di questa portata è politicamente pensabile soltanto nel contesto di una riforma di sistema, che involga anche il recupero del necessario rigore ed equità fiscale, un livello di ragionevole efficienza dei servizi al mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, più in generale la credibilità delle istituzioni che fanno da arbitro tra le parti sociali. Questa battaglia innovativa che lei conduce meritoriamente presuppone una comunità nazionale in cui cambino contemporaneamente molte altre cose. Allora, chi fa la prima mossa? Senza una concertazione seria tra tutte le parti interessate, non si creerà mai il minimo di fiducia necessario perché si possa imboccare credibilmente una strada come questa.
(1) Con questo termine si indicano le tabelle retributive stabilite dai Ccnl italiani negli anni Cinquanta e Sessanta, che prevedevano rigidamente minimi differenziati in riferimento alle diverse zone del paese.
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