CARCERE E LAVORO. Detenuti lavoratori: stipendi dimezzati

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Carceri / Un caso clamoroso di inadempienza

Detenuti lavoratori: stipendi dimezzati

di Stefano Iucci

Tempo pieno, paga dimezzata. In questa condizione versano i 12.000 detenuti che lavorano in carcere alle dirette dipendenze del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La denuncia arriva dalla Funzione pubblica della Cgil. O meglio, dagli stessi detenuti-lavoratori, che sempre più spesso scrivono ai sindacati e intraprendono vertenze contro l’amministrazione. Si tratta di un caso clamoroso d’inadempienza, che coinvolge paradossalmente proprio l’amministrazione della giustizia.

Secondo l’articolo 22 della legge 354/75 (modificato dalla legge Gozzini, la 663/86), le “mercedi” corrisposte a questa particolare tipologia di lavoratori non devono essere inferiori ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro di riferimento e dovrebbero, di conseguenza, essere aggiornate a ogni rinnovo di biennio economico. “Nonostante ciò – spiega Fabrizio Rossetti, responsabile del comparto sicurezza per la Fp –, l’ultimo aggiornamento delle retribuzioni si è avuto nel ’93. Da allora, gli stipendi sono fermi”. I dati parlano chiaro: un fabbro carrozziere, il cui contratto di riferimento è quello dei metalmeccanici, guadagna all’interno del carcere circa 460 euro al mese, un operaio agricolo 430, un addetto ai servizi vari poco più di 600. In media, si tratta della metà di quanto stabilito nei relativi ccnl. Considerando che, come accennato, gli stipendi non dovrebbero essere inferiori ai due terzi di quelli di riferimento, c’è da recuperare almeno un terzo di salario. Per adeguare le retribuzioni servirebbero (al netto dell’incremento di un milione e 400.000 stabilito nell’ultima Finanziaria sul vecchio budget, che ammontava a 65 milioni e 700.000 euro) 25 milioni e 700.000 euro.

Ma tra le denunce dei detenuti spiccano anche altre irregolarità, che hanno anch’esse un impatto economico. M. C., detenuto in un carcere campano, scrive per esempio alla Cgil che, pur avendo svolto per tre anni l’attività di operaio falegname qualificato è stato inquadrato come apprendista (con relativo stipendio più basso), nonostante avesse a lungo lavorato, fuori dal carcere, nella falegnameria da anni proprietà di famiglia.

Una situazione insostenibile, tanto che lo stesso Dap ha tentato ultimamente di porvi rimedio. A metà gennaio si è riunita la commissione prevista dalla citata legge 354/75, che ha il compito specifico di aggiornare le “mercedi” e che, nonostante i ripetuti inviti dei sindacati, dal ’93 a oggi non era mai stata convocata. I dirigenti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria presenti alla riunione, dopo aver ammesso di non avere risorse disponibili sufficienti per i necessari adeguamenti salariali, hanno proposto una scorciatoia: la riduzione del lavoro a quattro ore giornaliere in cambio delle stesse retribuzioni percepite attualmente, così da rispettare i contratti nazionali di lavoro. La proposta è stata respinta al mittente dai sindacati: “La commissione – spiega Rossetti – ha il compito esclusivo di stabilire le mercedi dei detenuti e non può in nessun caso intervenire sull’organizzazione del lavoro, che è prerogativa di altri organi individuati dalla legge”. I sindacati rivendicano dunque l’immediato adeguamento delle risorse. “Venticinque milioni – aggiunge il sindacalista – non mi sembrano una cifra eccessiva per ridare dignità al lavoro in carcere. Non va dimenticato che queste entrate sono fondamentali per i detenuti, che spesso con i pochi soldi che guadagnano mantengono le loro famiglie”.

Senza trascurare il fatto che con la riduzione delle ore lavorate verrebbe meno uno dei cardini della legislazione carceraria italiana e, in particolare, un caposaldo della legge Gozzini, che affida al lavoro una fondamentale funzione di socializzazione e reinserimento. La stessa legge 354 sottolinea, all’articolo 20, che “negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale”. Un punto, questo, su cui l’amministrazione della giustizia è largamente inadempiente. Sommando infatti gli 11.824 detenuti alle dipendenze dirette del Dap (11.151 uomini e 673 donne) ai 2.771 che lavorano per un’azienda esterna (2.618 uomini e 153 donne) si arriva alla non ragguardevole quota di 13.769 persone: appena il 24 per cento dell’intera popolazione carceraria. E la percentuale scende ancora in alcune regioni meridionali, in particolare nella Sicilia. Le quote più alte si registrano invece in Toscana e in Sardegna, con il 40 per cento dei detenuti occupati. “In generale – conclude Rossetti –, questa legislatura ha mostrato un forte disinteresse per il lavoro in carcere. Di sicuro, la legge Smuraglia (che, licenziata alla fine della scorsa legislatura, prevede agevolazioni per le aziende che offrono lavoro all’interno del carcere, ndr) non è stata affatto applicata”.

(www.rassegna.it, Rassegna sindacale, 8 febbraio 2006)

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