WELFARE. Flexsecurity alla danese

by redazione | 9 Gennaio 2006 0:00

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(da “La Repubblica”, lunedì 9 gennaio 2006, pagina 19 – Esteri)

I licenziamenti fanno scattare gli assegni di disoccupazione. Ma rientrare sul mercato del lavoro non sempre è facile

La “flexsecurity“ di Copenaghen grande welfare ma non per tutti

Le crepe del modello danese che molti vorrebbero esportare

Rifiutare un impiego dopo un anno senza lavoro significa perdere il sussidio

Le statistiche dicono che solo il 5% è senza un posto e meno del 2% da più di due anni

Ma c´è anche chi smonta il mito danese: “La Flexsecurity eleva la precarietà a sistema“

ANAIS GINORI

COPENAGHEN – L´agenzia di Vesterbrogade, a due passi dal parco giochi Tivoli, accoglie ogni anno centomila persone senza lavoro. E´ la più grande di Copenaghen. Nessuna fila fuori, dentro gente che non sembra affatto disperata. Strani però questi disoccupati. Niclas, un bel ragazzo danese con felpa extra large, appare persino allegro: «E´ la terza volta che mi licenziano» riepiloga. «Ma sto seguendo un corso di formazione per asfaltatori: pare che ce ne sia davvero bisogno. Questione di pochi mesi e sono di nuovo sotto contratto». In Danimarca la disoccupazione è come le stagioni: arriva poi passa. Soltanto il 5% della popolazione è senza lavoro e meno del 2% lo è per più di due anni. Si sale e si scende: un impiego dura in media quattro anni, ogni danese cambia almeno cinque volte datore di lavoro nel corso della sua vita.
“Flexsecurity“, ovvero flessibilità economica e sicurezza sociale: il segreto è questo. Nella giostra del lavoro danese (le aziende possono licenziare e assumere a piacere) c´è infatti sempre qualcuno pronto ad aiutare chi rimane fermo. Dal primo giorno di inattività scatta l´assegno dello Stato: fino al 90% dello stipendio per 4 anni. «La Danimarca ha capito prima degli altri che la globalizzazione richiedeva di abbattere steccati ideologici» spiega l´economista danese Jesper Jaspersen, gran teorico di questo compromesso tra neoliberismo e vecchio Welfare State, tra il modello anglossassone e quello europeo. Per licenziare bastano cinque giorni, per assumere non c´è salario minimo o norme contrattuali nazionali. Il socialdemocratico Urban Ahlin sintetizza così: «Preferiamo salvare le persone che i posti di lavoro. E´ inutile cercare di mantenere in vita aziende e comparti produttivi decotti. Meglio investire nella formazione dei lavoratori per orientarli verso nuovi settori».
Mounia, un ragazzo francese di origine algerina, è arrivato a Vesterbrogade per seguire un corso di informatica. «Facevo lo scaricatore al mercato. Un giorno mi sono ammalato e il padrone mi ha licenziato». Eccolo dunque all´ufficio di collocamento mentre intasca circa 1.400 euro mensili di indennità per mantenere la sua famiglia. A 34 anni Mounia si sta preparando un nuovo futuro. Il sistema di entrata/uscita dal mercato del lavoro è così rapido che la metà della gente che si iscrive nelle liste di collocamento trova un altro posto entro sei mesi dal licenziamento. Per gli altri, iniziano i corsi di “attivazione“ ovvero la formazione professionale. Nessun disoccupato può pensare di starsene a casa ad aspettare una telefonata a spese dello Stato. Dopo un anno di disoccupazione, rifiutare una proposta comporta la sospensione del sussidio. Il sistema è generoso ma severo.
«Che succede se mi propongono di andare a fare la cameriera? Sono costretta ad accettare?» riflette Charlotte, una bella donna di 32 anni con un caschetto biondo. Laureata in economia con un master in amministrazione aziendale, sta consultando anche lei “jobnet“, l´annuario delle offerte di lavoro. Cerca da maggio, il tempo passa e non riesce a trovare la cosa giusta per lei. Questa giovane manager, che ha anche lavorato in Germania, è stata licenziata in tronco durante una ristrutturazione aziendale. «Ho sempre pensato che il modello danese fosse il migliore – confida – . Adesso però vedo anche l´altra faccia della medaglia». Il rapido ricollocamento dei disoccupati funziona meno bene quando si tratta di lavoratori qualificati, molto specializzati o di persone oltre i 50 anni. Peggio ancora per gli immigrati: la maggior parte è completamente tagliata fuori dalla “flexsecurity“. La disoccupazione è quasi tre volte più alta tra i cittadini stranieri, chi non ha mai lavorato o non ha un titolo di studio danese è escluso.
«Ci sono ancora alcune imperfezioni». Kirsten Landtved, dirigente dell´ufficio di collocamento, è ottimista. «Miglioreremo». Cinquantenne massiccia ed energetica, Kirsten non indulge in sentimentalismi. E´ appena tornata da un colloquio di lavoro. Per far assumere un disoccupato? «No, per me» risponde. «Da gennaio il mio posto scomparirà: riorganizzazione interna». E´ già la quarta volta che Kirsten cambia lavoro. «Prima pensavi che il contratto fosse un matrimonio, adesso è un semplice flirt. Al massimo un fidanzamento» osserva divertita Kirsten. Poi si fa più seria: «Non possiamo fermare il treno della modernità, sarebbe come lottare contro il vento».
Questa inedita alchimia piace. La sogna il candidato dell´Unione Romano Prodi. Il primo ministro francese Dominique de Villepin ha inviato funzionari in missione a Copenaghen per studiare la ricetta miracolosa. L´ex presidente Bill Clinton ha detto di essersi «profondamente ispirato» alla situazione in Danimarca. Eppure esportare il modello danese sembra complicato. La popolazione danese è quanto quella di Roma (5,5 milioni di abitanti), il Welfare può contare su un prelievo fiscale tra i più alti al mondo senza avere quei problemi di bilancio ormai congeniti alla maggior parte delle grandi democrazie. Impossibile poi immaginare un altro paese dove sindacati e imprenditori hanno un dialogo così armonioso e proficuo. Oltre il 70% dei lavoratori è sindacalizzato ma non c´è bisogno di scioperare per conquistare diritti. «E´ un´economia negoziata, la concertazione è antica di oltre un secolo» spiega Paolo Borioni della Fondazione Gramsci che al modello scandinavo ha dedicato un libro in uscita, con la prefazione dell´ex ministro del Lavoro Tiziano Treu.
Nel mezzo del quartiere latino, dove durante la guerra c´era una tipografia nazista oggi c´è la redazione di Information. Questo piccolo quotidiano progressista creato a Copenaghen nel 1945 ha lavorato a una serie di inchieste per smontare il mito danese. «Le statistiche sulla disoccupazione non dicono che c´è quasi un milione di persone che vive con il Welfare e non riesce a tornare sul mercato» avverte il giovane direttore, Palle Weis. «Davvero la vostra sinistra vorrebbe mettere nel suo programma questo modello?» domanda stupito. Secondo Information, la flexsecurity non fa altro che elevare il precariato a sistema. «Il lavoro è vissuto con uno stress maggiore di prima, c´è un diffuso senso di vulnerabilità. Non vorrei – conclude Weis – che i politici europei scambiassero la realtà per un miraggio».

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