LIBERTA` DI STAMPA. La guerra e il giornalismo. Articolo di Remondino

by redazione | 5 Gennaio 2006 0:00

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(da “il manifesto”, 5 gennaio 2006)

Notizie di guerra

ENNIO REMONDINO

Più che i numeri dei giornalisti uccisi in guerra, sembra la dichiarazione di guerra al giornalismo. Secondo Reporters sans frontières, nel 2005 appena trascorso, nel mondo sono stati uccisi 63 giornalisti e 5 loro collaboratori. Tanti. L`anno peggiore fu soltanto il 1995, con 64 giornalisti e 5 collaboratori morti. Sempre lo scorso anno, l`associazione dei «giornalisti senza frontiere» ci dice di almeno 807 feriti, fra cui ovviamente la nostra Giuliana Sgrena, di 1308 aggrediti o minacciati, e almeno 1006 media censurati. Guerra alla libertà d`informazione. Si muore di più in Iraq, ovviamente, dove nel 2005 sono stati uccisi 24 colleghi e 5 collaboratori. Terrorismo e guerriglia, ma non soltanto. Anche i militari americani hanno fatto la loro parte. Il 28 giugno, per esempio, i marines hanno ammazzato il trentenne Wael Al Bacri, reporter iracheno. La statistica non ci dice se e in quale categoria sia stata contabilizzata l`uccisione di Nicola Calipari, l`uomo del Sismi che stava portando in salvo Giuliana Sgrena. Nel corso della sola guerra in Iraq, dal marzo del 2003 ad oggi, i giornalisti e collaboratori uccisi, sono stati 76. Più che nei 20 anni di guerra in Vietnam. Al secondo posto di questa macabra statistica 2005, le Filippine con 7 reporter uccisi, poi Afghanistan, Bangladesh, Libano, Pachistan, Russia, Somalia. Persino nel Kosovo «liberato» dalla Nato e vigilato anche dai nostri militari, è stato ammazzato un giornalista.

Il confronto con la «prima guerra fra media e militari», quella del Vietnam, è un obbligo storico ma non completo. Reporters sans frontières s`è dimenticata, per esempio, della Bosnia. Potete accertarvene direttamente a Sarajevo, lungo la Ulica Marshala Tito (lì il nome del Maresciallo ancora resiste), accanto alla fiamma perenne dedicata a tutti i caduti jugoslavi nella guerra contro il nazi-fascismo. Una semplice lapide con la altrettanto semplice grafica: due fili spinati tagliati da un penna d`oca che lascia un scia rossa e una goccia di sangue, ricorda che nel macello bosniaco furono uccisi 82 giornalisti, cine e foto operatori. «82 novinari», e non è esatto. La lapide è stata collocata nel 1994, e manca il risultato dell`ultimo anno di guerra. Da quei dati della Bosnia, che conosco bene, un elemento appariva chiaro. A morire in guerra, erano soprattuttoi giornalisti locali. La stampa dell`intervento immediato sul campo, la telecamera che deve inseguire l`azione di guerra o l`effetto di una granata, il free lance che per una manciata di dollari deve garantire ai grandi network televisivi e alle agenzie di stampa, il materiale attraverso cui commuovere i loro lettori o ascoltatori.

Ai dati del 2005 manca quella statistica, il dato sul racconto di guerra in conto terzi. Nessuna mancanza diriguardo rispetto alle «nostre» vittime. Troppi i morti italiani, molti dei quali erano amici e preziosi colleghi. Ma nelle guerre della nostra modernità occidentale, guerre tutte di «alta ispirazione democratica» e di forte «idealpolitik», muoiono di più i reporter locali. Più o meno quanto accade nel confronto fra vittime militari e vittime civili.

Guerra e informazione non possono, non dovrebbero andare d`accordo. Se accade, c`è qualche cosa che non va. Giornalismo trombettiere e reporter «embedded» diremmo oggi. Se il giornalismo è «parte» nella guerra, diventa automaticamente bersaglio della guerra stessa. Se il giornalismo la racconta criticamente, o viene espulso o rischia ciò che è accaduto a Giuliana. Il problema dei problemi alla fin fine è legato alla semplice domanda: ma il giornalismo dei grandi media internazionali oggi, è utile o no alla democrazia?

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