Fare del carcere una «questione sociale». Articolo di Luigi Manconi

by redazione | 27 Dicembre 2005 0:00

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(da “L`Unità“, 27 dicembre 2005)

Dopo la marcia di Natale e la convocazione della Camera esiste un obiettivo
ancora più importante da perseguire: fare del carcere
una «questione sociale»

di Luigi Manconi

Della marcia di Natale, resteranno – tra le altre – due tracce assai significative. Una è quel grido: «amnistia, amnistia», che è riecheggiato nelle orecchie dei detenuti di Regina Coeli, quando la manifestazione si è fermata davanti alle mura del carcere romano: a far sentire la sua voce e a comunicare la sua presenza, in un giorno che può essere il più malinconico del mondo (e non solo per i reclusi). La seconda traccia sta nella particolare composizione del corteo, dove accanto agli esponenti e ai militanti politici e a quei cittadini che, semplicemente, amano il diritto e la libertà, c’erano – incerti e inesperti – alcuni che si presentavano come «familiari» di questo o quel detenuto. Ecco, in questa presenza, ancora esile e soprattutto ancora sostanzialmente anonima, non dichiarata, titubante tra dolore e vergogna, di ex detenuti e di parenti di detenuti, sta un primo e tuttavia prezioso segno dell’importanza di quell’iniziativa. Il suo fine é limpido e inequivocabile: un provvedimento di legge entro questa legislatura. Sappiamo quanto sarà difficile ottenerlo, ma non é una buona ragione per rinunciarvi. E tuttavia, prima e dopo la giornata del 25 e quella altrettanto cruciale di oggi (con la convocazione della Camera dei deputati), c’è un obiettivo, se possibile ancora più importante, che si intende perseguire. Ovvero fare del carcere, come dicono Marco Pannella e i radicali, una «questione sociale». Questo é il punto. Nel fatti, e sotto il profilo sociologico, lo è già: eccome. Basti pensare a quanti sono i cittadini coinvolti a vario titolo in «questioni di giustizia». Come ricorda Sergio Segio nel suo sito (www.dirittiglobali.it), il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Francesco Favara, nella relazione sull’amministrazione della giustizia, ha affermato: «Se si pensa che per ogni causa civile vi sono almeno due parti interessate (ma spesso ve ne sono tante altre), e che ogni processo penale coinvolge un numero di persone, come imputati o come parti lese, certamente superiore (…), si ha subito la sensazione concreta della entità dell’interesse – e del malcontento – che per la giustizia hanno i cittadini». Ovvero milioni di cittadini. Ma se pure consideriamo esclusivamente coloro che vengono raggiunti in maniera diretta dai meccanismi della detenzione e del controllo, risulta una cifra comunque imponente: 60.000 persone sono recluse (il più alto indice di carcerizzazione rispetto alla popolazione nazionale dal 1953), quasi 50.000 sono in misure alternative alla detenzione e circa 75-80.000, già condannate a pene inferiori ai tre anni (quattro se tossicodipendenti), attendono la decisione del giudice circa la possibilità di scontare la pena fuori dal carcere. Insomma, poco meno di 200.000 persone oggi vivono questa relazione stretta, strettissima con la galera e – se esaminiamo un arco temporale di circa un decennio – il dato va moltiplicato per cinque. Se, poi, consideriamo le reti familiari e parentali, la cifra sale ancora e in misura rilevante.
Cosa ha impedito finora che una quota così significativa di popolazione diventasse, appunto, «questione sociale»? La combinazione di due meccanismi di interdizione. Il primo rimanda al fatto che – detta in estrema sintesi – i detenuti non votano: e che il tema dei diritti dei detenuti «fa perdere consensi elettorali» (é una scemenza, ma niente può essere più immarcescibile e insidioso di una scemenza). In altre parole, quella quota di popolazione sta ai margini del mercato politico-elettorale, non ha proprie forme di organizzazione, sedi e soggetti di rappresentanza, risorse di mobilitazione, strumenti di pressione pubblica.
Dunque, “non pesa”. E non ha voce. Il secondo meccanismo di interdizione “spiega” il primo e ne costituisce la ragione profonda e rimossa: il carcere é motivo di vergogna, personale e familiare. È parte, e spesso causa prima, di un percorso di marginalità e di rovina sociale. È una tragedia che si vive individualmente e che individualmente si patisce: e di cui si muore (55 suicidi nel corso del solo 2005: in carcere ci si ammazza 17 volte di più di quanto ci si ammazza fuori dal carcere). E così anche l’ingiustizia aggiuntiva – il surplus di iniquità – che il carcere porta con sé (ovvero la negazione sistematica di tutti i diritti all’interno delle prigioni) mai, o quasi mai, viene affrontata come interesse collettivo, vertenza generale, problema della società nel suo insieme: questione di democrazia. Forse, domenica 25, lo si è iniziato a fare. Un pezzo minoritario, ma significativo, di classe politica era presente (anche se pressochè esclusivamente di centrosinistra). E l’opinione pubblica, più che in altre occasioni, è sembrata cogliere il messaggio. Ed é ancora a essa che ci si deve pazientemente rivolgere. Non è semplice, ma non è impossibile. Si tratta di trovare le parole (che, poi, notoriamente, é la cosa più ardua del mondo): ma le parole ci sono. E infatti – lo sappiamo, ma non sempre riusciamo a dirlo – carceri più umane e vivibili, carceri non sovraffollate e malsane, dove siano tutelati i diritti di tutti, rappresentano il contributo più efficace alla sicurezza collettiva: e alla sicurezza dei cittadini per così dire liberi.

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