Obama tassa i big Apple e gli altri pagheranno il 14% sui profitti all’estero

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NEW YORK . Chiamatela Appletax o Googletax se volete. E’ la tassa sui profitti esteri, o più spesso “esterovestiti”, delle multinazionali. Un’aliquota secca del 14%, tutt’altro che elevata, eppure sostanziosa se confrontata con quel che pagano adesso in certi paradisi fiscali (tra il 2% e lo 0,2% in Irlanda). E’ la proposta che lancia oggi Barack Obama nella sua legge di bilancio. La nuova tassa affronta un problema che non è solo americano: l’elusione legalizzata delle multinazionali. Così fan tutte, compresa la Fiat Chrysler (Fca) che ha spostato la sua sede legale a Londra. Gli esperti lo definiscono “shopping fiscale”: le aziende transnazionali vanno in giro per il mondo a cercarsi quegli Stati che offrono trattamenti fiscali di favore, a volte con negoziati “ad hoc” come nel Lussemburgo; in quei paradisi fiscali vengono costituite delle filiali locali dove confluiscono i profitti fatti in altre parti del mondo. Il danno è enorme per gli Stati d’origine delle aziende – e quindi per i contribuenti normali – che si vedono sottrarre una base imponibile consistente. Apple, la regina mondiale delle Borse, ha 170 miliardi di dollari di cash parcheggiati all’estero per non pagare le tasse americane. Per tutti i colossi americani messi insieme, il “tesoro estero” raggiunge i 2.000 miliardi di dollari.
L’originalità della proposta Obama sta nello scambio che offre ai repubblicani, maggioritari al Congresso: più tasse sulle multinazionali, in cambio di un maxipiano d’investimenti in infrastrutture. Ben 478 miliardi di opere pubbliche, fra autostrade, ponti, ferrovie, metropolitane. La metà di questi investimenti sarebbero finanziati col gettito della nuova tassa, sui profit dei big del capitalismo Usa. La proposta è contenuta nella legge di bilancio (un budget totale da 4.000 miliardi) che oggi il presidente invia al Campidoglio di Washington, dove hanno sede Camera e Senato, tutt’e due a maggioranza di destra dalle elezioni legislative del novembre scorso. Di solito le proposte di Obama in materia fiscale hanno vita dura, una volta che arrivano al Congresso. In questo caso però la Casa Bianca manifesta ottimismo: è convinta di poter raccogliere un consenso bipartisan, facendo leva sul fatto che molti repubblicani riconoscono l’urgenza di modernizzare le infrastrutture. La tassa sui profitti accumulati all’estero del 14%, è comunque un’aliquota agevolata rispetto all’attuale imposta sugli utili societari che arriva al 35%. Finora però le tasse sugli utili sono dovute solo nel momento in cui i profitti esteri vengono rimpatriati. Di qui la scelta di molte multinazionali, di parcheggiare quei profitti all’estero a tempo indefinito. Il caso di Apple è il più citato non solo per l’enormità dei profitti esteri ma anche perché a suo tempo la società fondata da Steve Jobs preferì indebitarsi lanciando un maxi-bond sui mercati, piuttosto che far rientrare una parte di quei profitti per autofinanziare i propri investimenti.
I primi ad avere reagito sono i repubblicani ultra-liberisti. «Questo presidente – ha dichiarato Paul Ryan – sfrutta l’invidia economica. Ma la redistribuzione dall’alto verso il basso non funziona». Il tema dell’invidia verso gli imprenditori di successo è un leitmotiv della destra, così come le accuse a Obama di fomentare la “lotta di classe”. Ryan, deputato repubblicano, fu anche candidato vicepresidente con Mitt Romney nell’elezione presidenziale del 2012. Alla Camera Ryan presiede la commissione Finanze, che avrà un ruolo chiave nell’iter della legge di bilancio. Ma perfino lui ha espresso una cauta apertura: «Siamo disposti a lavorare con quest’Amministrazione per trovare un terreno comune sulla riforma fiscale».
La Casa Bianca per trovare alleati a destra Usa una tattica collaudata: proporre investimenti in infrastrutture ubicati negli Stati e nei collegi elettorali di alcuni notabili del partito repubblicano. In cambio della tassa sui profitti esteri delle multinazionali, i parlamentari repubblicani porterebbero a casa degli investimenti a vantaggio della propria constituency. Un’altra contropartita che Obama offre ai repubblicani: se passa la nuova imposta sui profitti esteri delle multinazionali, ci sarebbe spazio per ridurre l’aliquota generale sugli utili delle imprese, riducendola dall’attuale 35% ad un massimo del 28%. Col passare del tempo, poi, i due regimi di tassazione dovrebbero convergere gradualmente: la tassa sui profitti esteri salirebbe al 19%. Fermo restando il diritto di detrarre le tasse già pagate all’estero, per tutti quei paesi con cui gli Stati Uniti hanno firmato convenzioni contro la doppia imposizione.
Fra le altre riforme fiscali di tipo redistributivo, il presidente propone di aumentare l’imposta sul capital gain (plusvalenze finanziarie) per le famiglie il cui reddito superi il mezzo milione annuo. Nella legge di bilancio c’è anche una clausola anti-austerity: l’abrogazione dei tagli automatici di spesa concordati a suo tempo coi repubblicani. Grazie a cinque anni di crescita, e al conseguente aumento delle entrate fiscali, i conti pubblici si sono risanati da soli e il deficit è sceso al 2,4% del Pil Usa.


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