Da allora, da 16 mesi, le loro famiglie aspettano il deposito delle motivazioni di una sentenza che ha inflitto pene per un totale di oltre 56 anni di reclusione. Ritenuti responsabili, tra gli altri, dei decessi per asbestosi — malattia dei polmoni legata all’inalazione di fibre di amianto — Vittorio Fanfani, 94 anni e Manlio Lippi, 93, ex direttori di Italcantieri (sette anni e sei mesi), e Corrado Antonini, 81, ex direttore generale Italcantieri (quattro anni e quattro mesi).
Quel giorno, vedove e orfani degli operai, sindacati e associazioni di difesa delle vittime dell’amianto, istituzioni e semplici cittadini hanno ascoltato per mezz’ora la lettura di una sentenza che era il primo riconoscimento di una giustizia attesa per troppi anni, dai primi decessi di una strage cominciata negli anni ‘90. Da allora però tutto si è fermato. Le motivazioni, che dovevano essere depositate «entro novanta giorni», non sono mai arrivate. E cronici problemi di amministrazione della giustizia in un piccolo tribunale di provincia, con una decina di magistrati, si sono aggiunti alla circostanza che il giudice Trotta è stato trasferito, nell’ottobre 2013, a Trieste come presidente del tribunale. Una paralisi che oggi preoccupa anche il governo. «Il ministro Orlando ha grandissima attenzione per la situazione del tribunale di Gorizia — dice l’avvocato Riccardo Cattarini, responsabile Giustizia del Pd per il Friuli Venezia Giulia e difensore di alcuni imputati del processo —. I ritardi nel deposito della prima, storica sentenza sull’amianto nel cantiere di Monfalcone derivano da criticità che esistono da tempo, non mi pare ci siano responsabilità individuali. Il presidente Trotta non poteva ragionevolmente dirigere il tribunale di Trieste, così importante, e stendere rapidamente le motivazioni della sentenza. Era prevedibile, ed è puntualmente successo. È urgente trovare una soluzione». Mese dopo mese, l’attesa per i familiari delle vittime si è fatta insostenibile. Con la conta delle settimane e dei giorni, e lo spettro della prescrizione che ha già coperto la tragedia di alcuni operai e si prepara a travolgerne sempre di più. «La sentenza è stata molto complessa per il numero degli imputati e delle persone offese», ammette anche Francesco Donolato, legale della Fiom, parte civile per la provincia di Gorizia. D’altronde, la storia giudiziaria dei morti per asbestosi al cantiere di Monfalcone, ricostruita in questo processo dai pm Valentina Bossi e Luigi Leghissa, parte dai primi anni ‘90 e si conclude nel 2005. È la storia di saldatori, falegnami, carpentieri, tubisti. Artigiani che hanno trascorso tutta la loro vita nei cantieri navali respirando senza saperlo quelle fibre assassine, finché un mesotelioma o un carcinoma non li ha portati via.
Già a fine anni ’80 i decessi si susseguivano uno all’altro, ma esposti e denunce rimbalzavano contro un muro di gomma impenetrabile. C’erano le prime segnalazioni dell’anatomopatologo dell’ospedale locale, il professore Claudio Bianchi, poi quelle dell’associazione Esposti amianto di Monfalcone. Ma per avere un’inchiesta e poi un processo, partito nel 2008 e arrivato a sentenza nel 2003, le famiglie hanno dovuto scrivere al Presidente della Repubblica e al Csm, fino a ottenere l’avocazione di una trentina di fascicoli da parte della procura generale. I parenti scendevano in piazza, i sindacalisti denunciavano, artisti e scrittori come Massimo Carlotto organizzavano spettacoli per tenere alta l’attenzione su morti apparentemente scollegate. «Donne sessantenni che non avevano mai visto la piazza come un luogo di rivendicazione, iniziavano a manifestare — ricorda oggi Chiara Paternoster, dell’associazione Esposti amianto Monfalcone — La sentenza è stata vissuta come un grande successo, questo rallentamento è ora un trauma ulteriore, che svilisce tante lotte. Molti vorrebbero che il processo finisse per chiudere una parentesi e non rivivere a ogni udienza l’agonia dei loro cari. La nostra è stata la più grande strage civile in tempo di pace, quasi duemila vittime d’amianto tra Trieste e Gorizia».