Voglio una vita part time

Voglio una vita part time

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PRENDETEVELA calma. Dannarsi l’anima a lavorare in ufficio, al computer, in laboratorio è inutile. Peggio: è superfluo. L’elogio della vita “slow” viene dal più improbabile dei pulpiti e dal meno verosimile dei posti. Siamo nella fornace tecnologica di Silicon Valley e chi parla è Larry Page, uno dei due nocchieri di Google, il gigante impegnato nella corsa a perdifiato dell’innovazione, ma anche nel vorace e spietato rastrellamento di opportunità finanziarie e industriali che, nel giro di pochi anni, gli ha dato quell’egemonia globale che è stata di Microsoft e, prima ancora, della General Motors. Ma, se Google corre, non è detto che lo debbano fare anche
quelli che ci stanno dentro. Le sedici ore di filato alla scrivania, sei o sette giorni su sette, sono una frenesia senza senso, dice l’uomo che, con quegli orari, ha messo insieme una
fortuna di 32 miliardi di dollari. «Le cose che contano davvero — dice — sono poche: una casa, la sicurezza, opportunità per i figli. Per averle, basta l’1 per cento delle risorse che impieghiamo». Il resto è superfluo.
Doppiata la soglia dei 40 anni, Page non è il primo guru di Silicon Valley che, con l’arrivo dei capelli bianchi, sente il bisogno di suonare la campanella della ricreazione e ripensare una vita bruciata nel forno dell’ambizione. Molti lo hanno fatto prima di lui, anche a 30 anni, dopo aver realizzato il progetto più desiderato o, semplicemente, una volta raggiunta una pila di milioni soddisfacente. Forse, a fargli rivedere le priorità dell’esistenza ha contribuito quel disturbo nervoso alle corde vocali che, un anno fa, aveva fatto lanciare
l’allarme sulla sua salute. Ma Page, in realtà, non ne fa un discorso individuale, né per sé, né per gli altri. Il suo invito a staccare, ogni tanto, la spina non è isolato. Da tempo, le bibbie del management indicano i pericoli del “sempre connesso”, invitano a non portarsi il lavoro a casa, a staccare il telefonino quando si esce dall’ufficio, a ritrovare un contatto con la realtà, fuori dal lavoro. Page, però, va più in là. «Provate a chiedere in giro — dice — se piacerebbe una settimana in più di vacanza o una settimana lavorativa di quattro giorni». Tempo, finalmente,per andare a pescare o in bici con i figli. «Si deve — sentenzia — lavorare meno per vivere meglio». Detta da un americano, cresciuto sotto la bandiera del “lavorare duro, dare tutto”, è una sorta di rivoluzione copernicana. Ma non finisce qui. Perché questo ha conseguenze sociali: se si lavora meno, qualcun altro troverà da lavorare. Lo dice un altro boss, questa volta sessantenne: Richard Branson, il patron della Virgin. Page lo cita esplicitamente: dove lavora uno, possono lavorare in due. Part time.
Cosa si sono fumati Larry Page e Richard Branson, ha subito cominciato a chiedersi il web? Anche in America, la recessione è alle spalle, ma il tasso di disoccupazione scende perchè il grosso dei disoccupati non ha ancora provato a cercare lavoro. I dipendenti di Mc-Donald’s riescono a tirare avanti, solo perché allo stipendio uniscono i sussidi di povertà, altro che part time. Un liceale guadagna l’11 per cento in meno, rispetto a quanto prendeva suo fratello, subito dopo essersi diplomato, quindici anni fa. Un laureato il 5 per cento in meno. Il mercato del lavoro, avvertono economisti come Tyler Cowen, è un luogo spietato in cui avanzano solo quelli che accettano i lavori più umili o hanno competenze esclusive. Gli altri, le classi medie di una volta, sono destinati a sprofondare. “Lavorare meno per vivere meglio” suona più accattivante del “lavorare meno per lavorare tutti” che, 30 anni fa, chiedeva Pierre Carniti. Ma chi ci ha provato per davvero, come la Francia con la legge con cui, a fine anni ‘90, Lionel Jospin imponeva alle aziende le 35 ore settimanali, sta facendo marcia indietro.
Forse, ironizzano i blogger, Page vive su un altro pianeta. E’ la tesi che un filo unisca appelli come quello di Page e osservazioni come quella sui “bamboccioni” italiani che non escono di casa, pronunciata, a suo tempo, da Tommaso Padoa-Schioppa, allora ministro dell’Economia. In sostanza, che le élites
considerino normali e ordinari opportunità e percorsi, abituali nel loro mondo — si tratti di Silicon Valley, con i suoi alti fatturati e alti stipendi o dell’alta borghesia internazionale — ma proibitivi al di fuori. Insomma, una conferma del fossato, anche psicologico, che sempre più divide l’1 per cento dei ricchi, diventati, negli ultimi 30 anni, sempre più ricchi, dal resto della società.
Ma sarebbe ingeneroso verso Page. Il fondatore di Google si muove su una lunghezza d’onda diversa. In sintonia con predecessori illustri. Era il 1930, nel pieno di una crisi economica paragonabile all’attuale, quando John Maynard Keynes si chiedeva cosa avrebbe fatto l’umanità della “abbondanza economica” che l’aspettava entro cent’anni. Il libro è “Le possibilità economiche dei nostri nipoti” e Keynes partiva dai progressi tecnologici dei decenni precedenti — elettricità, automobili, meccanizzazione agricola — per disegnare un futuro in cui il denaro non sarebbe più stato la forza traente della società e la scarsità sarebbe stata sostituita dall’abbondanza. Tanto da preoccuparsi di come impiegare il tempo di chi
non volesse solo divertirsi: «Dovremo adoperarci a spalmare il pane in strati sottili sul burro, in modo che quel po’ di lavoro che c’è ancora da fare possa essere distribuito fra il maggior numero di persone possibile. Orari di tre ore al giorno o quindici ore a settimana possono risolvere il problema per un bel po’». Forse Page ha letto Keynes o, forse, ha soltanto trovato i passi rilevanti su Google. Ma anche lui parla, in contrasto con la crisi intorno a noi, di “tempo di abbondanza” e, soprattutto, di tecnologie: «Un mucchio di cose che la gente faceva sono state — nell’ultimo secolo — rimpiazzate dalle macchine e continueranno ad esserlo».
Keynes non ha certo indovinato la previsione. Ma Page va, probabilmente, preso più sul serio dell’illustre economista. Siamo sul crinale di un’altra rivoluzione tecnologica — quella dell’automazione — in atto e il visionario di Mountain View è in una posizione migliore di tutti noi per intravederne gli sviluppi. In questo senso, le riflessioni di Page sul “lavorare meno”, in un paese abituato ad idolatrare il lavoro, sono un segnale importante. Dopo una fila di economisti e di accademici, il cofondatore di Google è il primo industriale a provare a disegnare il futuro che ci aspetta, con la inesorabile avanzata di computer e robot nei posti di lavoro. Prima sono saltati i posti operai nelle fabbriche, poi quelli delle classi medie — dalla dattilografa al contabile — negli uffici. Ora i lavori pregiati, dal designer all’avvocato, al trader di Borsa. All’informatico. Ma anche l’infermiera e lo spazzino. Non è un caso che l’uomo al quale, con la macchina Google senza guidatore, tassisti e camionisti devono la loro imminente scomparsa, cominci a porsi il problema.
E la conclusione di Page è che si può “vivere meglio”. Ma il boss di Mountain View si guarda bene dall’entrare nel particolare di cosa significhi, in termini di salario, “lavorare meno”. Forse, a Silicon Valley la busta paga non è il principale problema. Ma gli economisti che seguono l’automazione in marcia ci sono già arrivati. Computer e robot aumenteranno la produttività del sistema, che diventerà più ricco. I benefici, però, andranno nelle tasche dei capitalisti, cioè di chi possiede computer e robot. Ma questo crea un corto circuito, un vicolo cieco economico. Chi comprerà beni e servizi prodotti in massa da computer e robot se la gente, estromessa dal lavoro da computer e robot,
non ha più redditi? I capitalisti rischiano di restare senza mercato. Paul Krugman suggerisce di dare a tutti un reddito minimo garantito, a prescindere. Oppure, sulla scorta di Keynes, Branson, Page si può pensare ad una settimana corta. Anzi, cortissima. Ma assai ben pagata. Per chi, come lo storico segretario della Cisl, Pierre Carniti ha dedicato la vita alla battaglia per “lavorare meno, lavorare tutti” è una dolce vendetta. Anche se, nella nuova versione, lo slogan suona diverso. Lavorare meno per vivere meglio. Anzi, alla grande.



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