L’insostenibilità del debito e l’azzardo della ristrutturazione
C’è una questione di fronte all’economia italiana che — come uno spettro in sonno — tutti vedono e temono ma cercano di ignorare. Si chiama sostenibilità del debito pubblico. E’ presto tratteggiata: una montagna di oltre 2.100 miliardi di euro, pari a quasi il 135% del Prodotto interno lordo, è gestibile nel medio-lungo periodo oppure è una bolla destinata a esplodere e quindi, per evitarlo, richiede interventi straordinari? In altre parole, possiamo controllare la situazione attraverso politiche normali oppure dobbiamo considerare il passo fatale e preparare una ristrutturazione del debito, cioè una penalizzazione di chi ci ha prestato denaro?
I politici e i funzionari di Stato non ne parlano. Gli economisti hanno invece ben presente il problema, tanto che da qualche tempo alcuni si cimentano in proposte di ristrutturazione e cercano di trovare soluzioni le meno devastanti possibile. In un recente dibattito organizzato dalla Fondazione Corriere e dalla società di gestione AcomeA, il professor Paolo Manasse dell’Università di Bologna ha presentato uno studio approfondito dal quale arriva alla conclusione che il debito pubblico italiano non è, nella dimensione attuale, sostenibile e che qualche forma di ristrutturazione può essere presa in considerazione. Non è solo il fatto che, secondo i dati della Banca d’Italia, nel 2013 lo Stato ha speso per interessi 82 miliardi, circa il 5% del Pil: denaro sottratto, in buona misura, all’economia. E’ soprattutto la circostanza che, nelle condizioni date, per rispettare i vincoli introdotti dal Fiscal Compact europeo dovremmo ridurre il debito dal 135 al 121% del Pil entro il 2019. Significherebbe avere ogni anno un avanzo primario (cioè al netto degli interessi pagati sul debito) del 4,6% del Pil, il triplo di quello attuale: ma anche negli anni di maggiore sforzo e quando la crescita era migliore e l’inflazione più alta (1990-99) il surplus primario è stato in media del 2,5%.
Secondo Manasse è un’impresa impossibile. A suo avviso, il surplus primario massimo raggiungibile è attorno al 2% del Pil, il che implica che per potere mantenere una traiettoria rispettosa del Fiscal Compact dovremmo partire da uno stock di debito più basso: circa 208 miliardi in meno rispetto ai 2.100 di oggi, cioè dal 122% del Pil invece che dal 135%. Si può fare? A suo parere, con un piano coordinato a livello europeo e con grande attenzione ai particolari qualche forma di ristrutturazione è possibile. Manasse dice che il quadro legale la consentirebbe e che le perdite a cui andrebbero incontro le banche italiane sarebbero gestibili: perderebbero l’11,4% dei loro asset se tutto il debito pubblico fosse cancellato, molto meno se se ne cancella solo il 10-15%.
Ovviamente ristrutturare il debito, come ha fatto due volte la Grecia durante la crisi penalizzando i creditori privati, crea enormi problemi al Paese che lo fa: soprattutto rende difficile tornare poi sui mercati a vendere titoli di Stato. A maggior ragione se ciò avvenisse non sotto i colpi di una crisi finanziaria ma a freddo, come scelta politica. E’ vero che la Grecia, ora, è tornata a emettere titoli e a trovare investitori che li comprano ma è anche evidente che, in un mondo dove la reputazione è tutto, un default sul debito ha effetti devastanti e di lunghissimo periodo. Il professor Guido Tabellini, dell’Università Bocconi, dice per esempio che, dovendo scegliere, piuttosto che ristrutturare il debito sarebbe addirittura meglio uscire dall’euro: ipotesi forte. Non che Tabellini pensi che siamo di fronte a questa alternativa: crede anzi che la situazione si possa gestire, se si riesce ad avere una crescita economica superiore a quella anemica prevista per i prossimi anni. Nota per esempio che, tra il 1993 e il 2004, il Belgio ridusse il suo debito dal 134,1% del Pil al 94% con una crescita annua media del 2,4% e 11 anni di surplus primari. L’Irlanda dal 92 al 37% del Pil tra il 1988 e il 2000 grazie a una crescita media annua del 7,3%. Ma un default, per quanto gestito, non lo vuole prendere in considerazione.
Nelle settimane scorse, il centro di studi Economia Reale dell’ex viceministro dell’Economia Mario Baldassarri ha presentato un piano nel quale propone un taglio del debito di 40 miliardi nel 2015, di cento nel 2016 e di altrettanti nel 2017, per arrivare al 110% dl Pil quell’anno e al 102,4% nel 2018. Non attraverso una ristrutturazione, però: attraverso la creazione del Fondo Immobiliare Italia, un fondo che prenda in carico il patrimonio pubblico, si attrezzi a venderlo nel lungo periodo ma nel frattempo lo cartolarizzi e ne venda le quote sui mercati (prevede anche che entro l’anno prossimo l’amministrazione pubblica paghi interamente i debiti verso le imprese). In uno scenario decisamente ottimistico, Baldassarri calcola anche che se il rapporto di cambio tra euro e dollaro evolvesse verso uno a uno, per questo solo fatto il debito pubblico italiano scenderebbe al 113,5% nel 2018: quando abbinato alla sua proposta di alienazione finanziaria del patrimonio, in questo scenario il debito calerebbe all’89,5% tra quattro anni. E’ difficile che una congiuntura da sogno del genere prenda forma: il calcolo, però, dimostra che la ristrutturazione del debito non è necessariamente la sola strada che abbiamo davanti.
Sta di fatto che in campo ci sono parecchie soluzioni di “taglio” del debito. Di recente, il professor Charles Wyplosz dell’Università di Ginevra ha elaborato una strada per ridurre i debiti pubblici di colpo senza infliggere perdite ai creditori o vendite di patrimonio. Ha chiamato la complessa proposta Padre, Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone: si tratta di fare sparire la metà del debito pubblico (di tutti i Paesi dell’area euro) passandolo a un’agenzia che poi lo ripagherebbe usando i diritti di signoraggio che ogni banca centrale nazionale riceve dalla Banca centrale europea. Una proposta che si va a aggiungere a quelle che in questi anni di crisi sono state avanzate da molti centri di studio: prevedono un default, un mezzo default, una manovra coordinata europea per mutualizzare i debiti futuri, l’emissione di Eurobond e via dicendo. Soluzioni più o meno creative, più o meno solide, più o meno accettabili politicamente.
La cosa che per ora abbiamo imparato dalla Grande Crisi è che gli alti debiti sono un enorme peso che limita la crescita e crea disoccupati. Per il resto, sappiamo solo che, se non costretti dai mercati, difficilmente i governi vorranno svegliare lo spettro addormentato.
Danilo Taino
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