Dai fast food alle multinazionali la battaglia per il salario minimo

Dai fast food alle multinazionali la battaglia per il salario minimo

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LA discussione intorno al salario minimo deve far fronte a un paradosso. Sia pure in varie forme, il salario minimo legale esiste in 25 paesi Ue su 28. Ma quanto è servito il salario minimo, dove esiste, a difendere le condizioni di lavoro dei dipendenti a fronte degli attacchi concentrici delle politiche di austerità e delle “riforme” del mercato del lavoro? I risultati non sono confortanti. I disoccupati nella Ue hanno toccato i 27 milioni, più del 12% delle forze di lavoro. Tra i giovani sotto i 25 anni il tasso di disoccupazione è addirittura triplo. La quota di lavoro sottopagato o di occupazione precaria si stima tocchi in media il 20-25 per cento delle forze di lavoro, perfino in Germania. E poi c’è il re degli indicatori, la quota salari sul Pil: nella Ue a 15, essa è scesa dagli anni 80 al 2007 di 10 punti, dal 68 al 58 per cento. Le condizioni lavorative e retributive sono sostanzialmente peggiorate in meno di una generazione.
Si può certo sostenere che senza il salario minimo sarebbe andata ancora peggio, e che comunque è giunto il momento di introdurlo anche nei paesi dove non esiste, come l’Italia. Il punto fermo è che il salario minimo non può essere considerato un miglioramento in assoluto, piuttosto un recupero parziale delle condizioni di lavoro che sono state intaccate dai governi negli ultimi decenni. Nel migliore dei casi si tratta, come ha scritto Die Zeit, di un successo nel quadro di una sconfitta.
Occorre comprendere che cosa può significare in concreto un salario minimo garantito per legge. In genere esso significa che non si può venire pagati meno di tot euro l’ora. In molti casi, tuttavia, le leggi sul salario minimo non prevedono che il dipendente debba anche svolgere tot ore di lavoro alla settimana o al mese.
Ma è questo il punto in cui la lungimirante idea del salario minimo si scontra con la miopia della corrente normativa sui contratti di lavoro. Un raccoglitore di frutta accoglierà con gioia la notizia che di lì in avanti verrà pagato, per dire, 8 euro l’ora invece di 4. Però la sua gioia diminuirà se il datore di lavoro gli comunica al tempo stesso che adesso potrà farlo lavorare soltanto quattro ore al giorno invece di otto (o magari dieci o dodici); oppure che anziché lasciarlo a casa quindici giorni tra un contratto a tempo determinato e l’altro d’ora innanzi lo lascerà a casa per un mese.
I riformatori inglesi che intorno al 1840 discutevano di salario minimo vedevano lontano, quando sostenevano che esso dovrebbe consistere in «una equa giornata di paga in cambio di una equa giornata di lavoro». Sebbene il salario minimo sia stato ripristinato da Blair nel 1999, dopo che era stato abolito dal governo Thatcher vent’anni prima, i discendenti dei suddetti riformatori hanno ora a che fare con innovazioni contrattuali tipo i contratti a zero ore. Questi ultimi prevedono che uno sia assunto da un datore di lavoro, il quale però non ha nessun impegno a farlo lavorare tot ore la settimana. Lo chiama al lavoro soltanto quando gli serve, otto-dieci ore una settimana, supponiamo, e quindici la successiva. Se non lo fa lavorare per niente, dovrà retribuirlo soltanto per un quarto del massimo di ore previste dal contratto. Il caso dei contratti a zero ore è esemplare per dimostrare che l’introduzione del salario minimo anche in Italia sarebbe una buona notizia, se fosse accompagnata da una revisione dei contratti di lavoro che restituiscano al lavoratore una ragionevole certezza non soltanto sulla paga oraria, ma anche sul numero di ore retribuite su cui può contare.


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